Il posto delle foglie
di Mariolina Cosseddu
Una mostra come un giardino dismesso, uno spazio come aiuole abbandonate, le stanze del museo come i margini dimenticati di strade secondarie non più attraversate dalla presenza umana: è la scommessa (e la sfida) di Antonio Bardino a spingere lo sguardo (il nostro) dove non vorremmo, spiazzati da una natura che si riprende il proprio posto, la propria vitalità. Simulacri di una condizione silenziosa, appartata, defilata dal clamore del mondo, i fogliami schivi e incerti, in transito verso luoghi ignoti, conquistano la propria autonomia e si espandono sulla tela in un proliferare organico e necessario. In questo personale diario visivo Antonio Bardino dichiara la propria poetica con una scelta concettuale e linguistica coraggiosa, non facile e non immediatamente leggibile nella ricchezza esornativa di questi giardini senza giardinieri, di queste “malas erbas” che, a dispetto di tutto, reclamano se stesse. Pur attingendo dalla grande tradizione classica del paesaggio naturalistico Bardino si avvia in un territorio non battuto da altri, vergine e ribelle, indocile e infestante che non seleziona le specie ma mostra la convivenza dell’alterità nella varietas delle forme vegetali. Vicino per molti versi alle teorie di Gilles Clement e al celebre “Manifesto del terzo paesaggio”, il lavoro allestito al Museo di Casa Manno rappresenta una scelta tra un corpus di opere omogenee, ultima fase della ricerca di Bardino. In realtà, a guardare con lucidità gli oli realizzati tra il 2014 e quelli approntati per questa mostra, si coglie l’intento profondo che sostiene le sue composizioni, dove non c’è mai niente di superfluo ma ragioni complesse innescate nella bellezza di una pittura sontuosa.
Abituato da anni a indagare le manifestazioni di una contemporaneità osservata attraverso le emergenze architettoniche di luoghi pubblici e privati o la desolante persistenza di strutture industriali, Bardino rovescia il versante della medaglia e ne scopre un aspetto irrequieto e inesorabile che implica una presa di posizione politica e culturale. Senza il progetto di esserlo. Almeno esplicitamente. Ragioniamoci con calma. La natura che ci propone questo artista inquieto come le sue visioni arboree è un orizzonte che non richiede contemplazione ma una partecipazione attiva: sono estensioni variabili di una natura spontanea e non più sfruttata, anarchica e biologicamente differente dove valgono solo leggi di sopravvivenza; sono “residui” di una realtà mobile, imprevedibile, determinata a conquistarsi il proprio spazio vitale adattandosi all’ambiente e dichiarando le proprie possibilità d’esistenza. In questo groviglio di piante pioniere, creative e governate da una forza energetica a evoluzione variabile si inoltra lo sguardo dell’artista che riconosce, nell’esuberanza disordinata della scenografia vegetale, una condizione esistenziale immaginifica e utopica. Uno spazio libero e condivisibile, marginale rispetto ai centri del potere, luogo permeabile e disponibile che contempla la diversità come bene comune, superficie senza confini certi semmai aperto all’incontro, all’accoglienza, alla comunicazione fra gli esseri viventi. Metafora, dunque, di una società non costrittiva e non respingente, inclusiva e antiselettiva, la natura di Antonio Bardino si presta ad un facile attraversamento in cui ci si può smarrire per ritrovare se stessi. È quanto fa lo stesso artista che inoltrandosi nel fogliame lo coglie con quel pennello virtuosistico che gli è proprio prima di abbandonarsi alla visione puramente astratta. In questi “giardini involontari”, infatti, in cui si genera un ordine dinamico e senza argini, l’ingresso è invito a un vagare sconosciuto e interrogativo fino a perdersi nella magia di uno stato atemporale. Così suggeriscono le visioni di Bardino che ci conduce per mano verso un limite dove tutto si annulla e dove esplode la luce calda di una ritrovata spiritualità. La dimensione metafisica è assicurata, la temporalità interrotta, la pittura magnifica se stessa.
Perché è la pittura, nella sua essenza più intima, la vera protagonista di questa personale visione del mondo. Una pittura piegata a variazioni linguistiche impreviste, declinata in modalità differenti e perciò necessarie, come la natura che esalta e che cresce per bisogno e “ampiezza biologica”, così l’artista asseconda quel processo creativo, lo lascia andare e lo trasforma in colore puro e vibrante, liquido o grumoso secondo le urgenze, funzionale a una nuova geografia dell’infinito. Ed è allora che si comprende meglio il poetico titolo di questa mostra che evocando il cinema di Ingrid Bergman e il suo “Posto delle fragole” ci costringe ad una ulteriore riflessione. Meditazione sul tempo e sulla caducità delle cose, cinema e pittura amplificano la nostra cassa di risonanza delle emozioni, ci offrono momenti di un piacere estetico che ci pone nostro malgrado di fronte all’ineluttabilità del ciclo della vita. Si fa sempre più manifesto così che il “percorso di deriva” (Gravano) dell’artista mentre ribadisce l’eterno legame tra uomo e natura ne svela il carattere universale e a questo punto imprescindibile di “vanitas”: il giardino, tanto più incolto e in balia di se stesso, ci ricorda la fragilità dell’esistenza, il ruolo della memoria, la precarietà della bellezza tradotta in una contemporanea e raffinata “natura morta”.
Alghero 2018
PAESAGGI LATERALI
di Valentina Tebala
Immaginate di fare una gita nel bosco, quello vostro preferito in cui avete passeggiato tante e tante di quelle volte che ormai vi sembra di conoscerne a memoria ogni albero, ogni cespuglio, ogni roccia. Poi chiudete gli occhi e riapriteli con un nuovo sguardo di fanciullo, libero da condizioni e visioni standardizzate, di inquadrature da cartolina, quadretto paesaggistico, o da documentario televisivo…
Vedrete quello che fino ad ora non avevate mai notato, che guardavate ma non avevate visto. L’osservazione “laterale” vi svelerà angoli sì nascosti ed intricati, ma rigogliosi: una natura selvaggia che dietro rovi e sterpaglie magari cela ancora i segni tangibili di una lontana presenza umana, come carcasse di strutture in cemento o metallo ossidato, e simili, divorate dalle siepi.
È lo scenario su cui si sofferma e scatta una fotografia l’artista Antonio Bardino, prima di trasporlo in pittura sulla tela. I suoi paesaggi laterali, marginali, dipinti ad olio, si pongono in stretta relazione con il famoso Terzo paesaggio teorizzato da Gilles Clément nel Manifesto omonimo del 2004, ovvero aree un tempo urbanizzate – o meglio antropizzate – e poi abbandonate, su cui la natura ha inesorabilmente ripreso possesso: «dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano». Oppure, fa riferimento a quei punti improbabili in cui la vita riesce, inarrestabile, ad insinuarsi: i ciuffi d’erba che spuntano tra l’asfalto e il gradino di un marciapiede, sul terrazzo di un edificio, o nel mezzo di un’aiuola spartitraffico.
Si tratta di paesaggi ed esperienze inaspettate ma biologicamente e simbolicamente di grande potenza: “precarietà e meraviglia, strade sconosciute che vale la pena affrontare, senza pregiudizio, lasciandosi andare come nella pittura quando l’immagine si fa da sola e il risultato è solo una conseguenza”, sostiene Bardino.
Ma appunto la pittura – l’atto e lo sforzo emotivo che richiede – ha un ruolo sostanziale per l’artista, interessato e affascinato dalle meccaniche della rappresentazione visiva fino, però, a lasciarsi andare e sopraffare completamente dalla materia pittorica in sé; la quale adesso non restituirà più una schietta immagine della realtà (seppur mediata prima dall’occhio umano, poi da quello meccanico attraverso la fotografia e infine dal pennello) per andare incontro all’astrazione, raggiungendo uno stato ormai decisamente più emotivo, sofferto. Da una parte abbiamo la ricognizione di paesaggi altri visti con nuovi occhi – tra cui pure una ricerca pittorica analitica sui non-luoghi di Marc Augè, come gli aeroporti o le sale d’aspetto delle stazioni, dipinti da Bardino fino a qualche anno fa – e dall’altra la stessa visione annebbiata dall’imporsi della sostanza cromatica fluida, libera e vaporosa.
Il paesaggio diventa infinito, i suoi contorni non sono più fisicamente riconoscibili, infatti la pennellata si fa istintiva, viscerale e vibrante. L’oggetto prende il sopravvento sul soggetto; coinvolgendo totalmente il pittore stavolta nei luoghi dell’immaginario, dell’inconscio e del ricordo. Il pretesto così apparentemente lirico del paesaggio, di un neo Naturalismo – o, forse meglio, di un neo Vedutismo – contemporaneo, diviene funzionale alla realtà della pittura e la celebra.
Parafrasando McLuhan, potremmo dire che «La pittura è il messaggio».
SMALL ZINE n. 17, gennaio/marzo 2016
Paesaggi laterali
di Veronica Liotti
Ai confini della foresta di Fontainbleau i pittori Barbisonniers hanno dato avvio, nella seconda metà dell’Ottocento, a una tradizione di pittura paesaggistica alla quale, per certi versi, possiamo accordare anche la ricerca di Antonio Bardino. Originario di Alghero e trasferitosi da anni a Udine, anch’egli, come i pittori di Barbizon, si trova su un confine: duplice nel suo caso. Ai piedi delle vette alpine, Udine è infatti, insieme ad Aosta e Merano, una delle sole tre città italiane ubicate in prossimità di due confini. Bardino ci arriva peraltro partendo dalla Sardegna, una realtà insulare che è per definizione un’unica grande frontiera fisica naturale, poiché connotata, fin nel proprio nome, dall’isolamento, dal limes, dal confine, inteso a volte come confino. Ma queste definizioni sono irrimediabilmente soggettive, prodotte da chi presuppone una qualche centralità, come ricorda con arguzia Lev Tolstoj nella Morte di Ivan Il’ic: «“Già, bisognerà andarci. Abitano tremendamente lontano”. “Lontano da dove state voi, vorrete dire. Da dove state voi è tutto lontano”». Questa relativa lontananza dal centro, ovvero prossimità al margine, plasma l’arte di Bardino, in quanto, come confessa egli stesso, «il perché e le soluzioni di una ricerca sono sempre dentro alle cose che viviamo, altrimenti sono solo forzature». Nel suo più recente ciclo paesaggistico (avviato dopo il 2011), Bardino sembra esprimere criteri diametralmente opposti a quelli che devono aver ispirato, intorno al 1550, un architetto come Pirro Ligorio nel progetto di restauro di Villa d’Este a Tivoli. In questo capolavoro del giardino all’italiana predominano la prospettiva rigorosamente centrale e la vue d’ensemble scenografica e severamente simmetrica rispetto alla villa, in un’unità artificiale di edificio, parco e giardino che rivela la rinnovata affermazione storica dell’uomo e della sua razionalità già di stampo illuminista. Bardino sembra invece voler spostare lo sguardo dal centro ai lati e rappresentare il “dietro le quinte” di quell’unità geometricamente composta; ossia quanto normalmente viene escluso dal cono prospettico, la zona non completamente addomesticata del giardino, gli sterpi e gli alberi cresciuti a ridosso dei muri perimetrali. Nel fare ciò, l’artista evita la tentazione di rappresentare una natura edenica, un mitologico Parnasso o un’idillica Arcadia, secondo i dettami del Neoclassicismo, né ricade interamente nel topos della natura naturans dei romantici tedeschi, selvaggia, sublime e carica di pathos. Gli scorci di Bardino non rimandano infatti a paesaggi da cartolina o foto-ricordo, ma ad angoli di bosco qualunque, anonimi, non pittoreschi: ritagli di natura quotidiana non in posa. «La visione frontale delle cose», afferma l’artista, «suscita meccanismi consueti, scontati», mentre proprio le zone liminari e interstiziali si rivelano più ricche e stimolanti: «Nel paesaggio, come nei rapporti con le persone, può essere interessante volgere lo sguardo a lato, dove le cose, la natura, si rivelano in modo inaspettato». Benché il concetto di lateralità costituisca il movente della sua pittura, non ne esaurisce tuttavia il senso, né basta, a nostro avviso, per decifrarne gli intenti, che diventano più intelligibili solo se associati al concetto di transito. L’attraversamento, il passaggio, la traversata sono azioni necessarie per muoversi, per lasciare una condizione d’insularità, per varcare un confine, un valico. Il transito esprime inoltre una condizione, appunto di transitorietà, di sospensione e impermanenza, di cambiamento di stato. In questo senso un’altra serie di opere di Bardino (2006-2008) ci offre una chiave di lettura proficua. Qui vengono rappresentate comuni zone di mobilità e consumo: aeroporti, stazioni, aree di servizio, supermercati, luoghi in genere situati nelle periferie (e dunque marginali) e sui quali non si posa che uno sguardo distratto, non finalizzato al piacere estetico; spazi che non sono mai meta di viaggio, ma soltanto appunto di transito. Per Bardino la “lateralità” sta dunque soprattutto nei criteri di scelta dei soggetti, non nella composizione stessa, dove, a ben vedere, domina una determinata centralità da cogliere non solo come elemento tecnico e figurativo, ma soprattutto come allusione concettuale. Al centro di questi paesaggi laterali si trovano infatti aperture luminose o spaziali: attraversamenti, probabilmente passaggi di stato emotivo, transiti interiori, dato che l’artista o lo spettatore sono soli dinnanzi a quinte sceniche svuotate della presenza umana. In tali opere, che esprimono il bisogno di traversare oppure un invito a farlo, si avverte intenso il desiderio, la curiosità di sapere cosa c’è oltre l’iconostasi in primo piano. Ciò che viene tematizzato in tutti i cicli pittorici dell’artista è dunque, verosimilmente, il rischio e l’impegno del transito: non paesaggi da guardare, ma da attraversare. Qualche anno fa Marco Paolini diede un’efficace suggestione sulla visione laterale, paragonandola a un paesaggio osservato dall’ampio finestrino di un treno anziché dal ristretto parabrezza di un’automobile. Eppure la descrizione più perspicace dell’essere in transito resta ancora Sulla strada di Jack Kerouac e un brano, in particolare, che sembra portare a sintesi molti aspetti della ricerca artistica di Bardino. V’è tutto, infatti, in quello sguardo laterale del protagonista, così laterale da essere gettato with one eye: «Sotto un polveroso vecchio albero c’era un’aiuola d’erba verde a prato che apparteneva a una stazione di rifornimento. Chiesi al benzinaro se potevo dormirci, e lui me lo permise senz’altro; così stesi per terra una camicia di lana, ci misi contro la faccia, con un gomito in fuori, e solo per un momento guardai di striscio con un occhio le Montagne Rocciosecoperte di neve nel sole ardente» (tr. it. M. de Cristofaro, Milano 1959).
Dortmund (DE) 2017
Il vuoto pneumatico e il mondo reale
di Daniele Capra
Benché vi siano ancora in giro – e si possano distintamente avvertire – i cascami di una vulgata concettualista radical chic che percepisce la pittura come uno strumento inadeguato di ricerca, la pratica di questa disciplina, liberata da non tanto dall’ideologia quanto dagli -ismi che hanno ammorbato la seconda metà del Novecento, si dimostra invece nei nostri giorni assolutamente centrale e progressista, anche nel recupero di procedure che in qualche maniera appartengono in forma esclusiva alla propria storia. Dipingere, seppure con modalità inevitabilmente eterogenee, è da un lato continuare quel lungo ed articolatissimo sentiero iniziato magicamente oltre ventimila anni fa nelle rappresentazioni rupestri, ma dall’altro è essenzialmente ricognizione e manipolazione dell’esistente in forma chimica, in cui colori, tela e pennelli sono esposti alle tossine ed al veleno della contemporaneità.
In forma allargata la pittura è cioè riconducibile alla categoria del postproduction teorizzata da Nicolas Bourriaud, secondo cui “sempre di più gli artisti interpretano, riproducono, ri-espongono, o usano oggetti realizzati da altre persone o da altri prodotti culturali disponibili. L’arte della post produzione risponde alla proliferazione del caos della cultura globale nell’era dell’informazione, che è caratterizzata da una crescente richiesta di opere e dall’allargamento al mondo dell’arte di forme fino ad ora ignorate o trascurate” (Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia, Milano, 2004, pag. 8). Dipingere è cioè l’atto finale di un processo che trova la sua origine altrove, dato che – come in sostanza capita all’uomo moderno – gli stimoli e gli alimenti che costituiscono la dieta culturale e visiva dell’artista sono di natura al massimo grado differenti e di natura non sempre facilmente classificabile. L’artista è onnivoro, ma mangia spesso e in forma disordinata, alternando con buona probabilità atteggiamenti anoressici e bulimici.
La pittura di Antonio Bardino risente di questa dieta eclettica e confusa, e in qualche maniera sembra voler arginare il vortice caotico di un mondo che pare talvolta non conoscibile opponendogli intrinsecamente ordine e pulizia formale. Non tanto in forma regressiva o conservativa quanto per intima di necessità gnoseologica. La complessità è cioè sezionata analiticamente, avendo la cura si cancellare tutti gli accidenti e gli elementi di perturbazione superficiale, in maniera tale che siano resi più evidenti le macrostrutture all’interno delle quali gli uomini si muovono e vivono, o transitano. In questo modo viene a manifestarsi la necessità di ricondurre la complessità ad una formula minimale e distaccata, tanto asettica nella forma quanto distillata nel rigore.
La sua è una pittura in qualche maniera ibrida, sia nel senso che non è pratica si nutre solo di stimoli pittorici, che nel fatto che il medium rappresenta solo la fase finale di una procedura di altra origine: ne è solo cioè supporto conclusivo, fase esecutiva manuale, seppur lenta e minuziosa. Ma è altrove che ha origine l’opera, e precisamente nella fotografia, nella registrazione digitale di quei luoghi. L’artista di origine sarda infatti, dopo aver catturato delle immagini con la propria fotocamera (ma spesso hanno contribuito al lavoro amici in viaggio, mettendo in essere un processo di condivisione di intenti , come giustamente hanno rilevato Fabiola Naldi e Mario Gerosa nel saggio che correda il catalogo di Art Happens Now. La giovane arte italiana al tempo del web 2.0) provvede a modificarle con i software di fotoritocco cancellando la presenza degli uomini e ricostruendo tutti quei pezzi che inevitabilmente mancano. Solo successivamente l’immagine viene fissata sulla tela, a partire da quella forma intermedia, scegliendo dominanti di colore fredde. Ma non è il dettaglio iperrealista ad essere ricercato, come fa tanta pittura accademica in maniera stucchevole, quanto invece l’atmosfera di vuoto esistenziale, come sottolineato dalla scelta di variazioni cromatiche molto lievi ed una latitudine di luce molto limitata. E l’osservatore attento, seppur affascinato dalla costruzione architettonica, avverte il senso di abbandono e di mancanza di quelle persone per i quali quei luoghi sono costruiti: chi guarda quei posti svuotati dalla massa brulicante di individui si mette infatti in una condizione di attesa di un movimento o di un evento che non potrà mai capitare, in una situazione non dissimile da quella dei soldati rinchiusi nel forte del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati.
Quelle di Bardino sono così viste impossibili. Se volessimo dirla con un linguaggio seicentesco diremmo dei capricci, ma al contrario del genere pittorico manierista – basato sull’invenzione e l’estrosità del pittore – non è tanto la bizzarria il valore aggiunto, quanto la sottrazione degli elementi inessenziali. Il capriccio sta cioè nella sintesi, nel depurare i luoghi dalla presenza umana che ne garantirebbe l’utilità sociale. A questa rasoiata contribuiscono in modo determinante i colori scelti, che hanno essenzialmente la stessa gamma cromatica di quelli utilizzati nelle lavorazioni industriali (che spaziano dal verde al blu, al grigio), sempre distillati e declinati in maniera delicata, per successive velature. Prendono forma in questo modo visioni antispettacolari, calibrate in un’atmosfera in cui la luce non è mai direzionale ma diffusa, come accade di vedere in taluni paesaggi brumosi del nord Europa. La luce pare manifestarsi per emanazione, appartenere agli oggetti stessi, in maniera antiretorica.
Per un lungo periodo gli unici soggetti dell’artista sono stati quasi esclusivamente aeroporti, luoghi di passaggio in cui le persone non possono essere degli individui, o non hanno il tempo per esserlo, ma tendono a somigliare piuttosto alle piccole tessere di un enorme puzzle in movimento, in transito o in arrivo da qualche luogo, ma mai ferme in forma stanziale. A dire il vero questi uomini nemmeno si presentano, sono assenti, mentre sono gli aeroporti a parlare, a mostrarsi nella loro complessità architettonica e tecnologica. L’atmosfera diventa surreale: (non)luoghi che siamo abituati a percepire affollati sono teatri senza gli attori che recitano la loro parte.
Tutto questo è però di secondaria importanza rispetto l’analisi antropologica su cosa siano quei posti vuoti e che funzione abbiano nella nostra contemporaneità. L’esigenza primaria è cioè far vedere e rendere esplicite le dinamiche del viaggio, dell’incasellamento dell’uomo a cluster apparentemente libero e indipendente, ma che in realtà compie in forma automatica e prefissata un percorso che è stato altrove concepito. Il ruolo del viaggiatore è ambiguo, poiché oscilla costantemente tra individuo che esprime volontà di movimento e topolino da laboratorio per il quale ogni percorso è stato pensato. Ugualmente l’utilizzo dei display permette di relazionare la masse delle persone con le proprie destinazioni, in una sorta di dittatura soft da parte del monitor, che impartisce informazioni e dà disposizioni cui risulta impossibile sottrarsi, pena il mancato perseguimento del proprio obbiettivo. L’aeroporto è cioè un esempio di civiltà ordinata e (pseudo?)democratica in cui i viaggiatori sono essenzialmente tutti liberi ed uguali, dato che devono seguire le stesse regole e devono sottoporsi tutti agli stessi controlli centralizzati: l’individuo è cioè un individuo-massa.
Nella rappresentazione di strutture architettoniche di grande estensione ed altezze ragguardevoli, caratterizzate dall’impiego di vetrate e strutture portanti modulari, si manifesta invece un’altra chiave di lettura interessante, imperniata sulla grande scala cui l’individuo metropolitano è costretto a relazionarsi: ogni luogo ha le dimensioni di una cattedrale laica ripetitiva e componibile, sviluppata con impalcature innervate di acciaio e superfici trasparenti che assicurano una forma di permeabilità con l’esterno, benché in effetti quello che accade al di fuori non sia di sostanziale interesse per gli eventuali passeggeri. Nella sostanza le strutture sono chiuse, dominate da un’aura di sterile ed asettica, in cui sembra si sia attuato una sorta di vuoto pneumatico che ha spazzato via persone ed esseri viventi non lasciando nemmeno emergere le tracce della loro presenza. Forse nemmeno si sente in lontananza la Music for Airports di Brian Eno che dà il titolo ad una delle mostre personali di Bardino.
Ma il lavoro dell’artista sta in questo ultimo anno virando in direzioni inaspettate. Due opere infatti si distaccano notevolmente dal topos luogo di passaggio – benché a loro modo siano comunque sempre situazioni in cui gli uomini hanno una presenza non stanziale – e stanno preludendo ad una nuovo interesse per i luoghi aperti. Si tratta delle stazioni di servizio, che Bardino ha dipinto avvolte in una sottilissima nebbia, quell’umidità autunnale che ammanta la pianura del nord Italia smussando gli angoli al paesaggio ed alle cose. Sono ben in evidenza le scritte luminose ed i loghi che identificano le compagnie petrolifere e anche le insegne che indicano i prezzi della benzina e del gasolio. Non è quindi solo il display nella sua funzione di dispositivo di trasmissione di un’informazione ad interessare, quanto anche il valore indicato (tra l’altro coincidente con alcuni dei picchi cui siamo abituati causa le dinamiche speculative sulla materia prima petrolio) e di conseguenza il fatto che la dimensione temporale non è più ferma ad un momento indefinito e sospeso, come nel caso degli aeroporti, bensì è evidentemente identificabile. Se l’autore precedentemente si sottraeva alla variabile tempo, ora invece sembra essere interessato a registrarne gli effetti, anche se in maniera non perfettamente univoca, dato che il prezzo è soggetto a cambiamento quasi quotidiano.
Parallelamente le ultime tele raccontano di uno spostamento all’esterno, in situazioni in cui elementi naturali (come gli alberi) sono messi in dialogo – o meglio in conflitto visivo – con le architetture tecnologiche, con vetrate, con le torri per le telecomunicazioni. Qui la pittura si fa meno controllata e finisce ad essere tecnicamente più goduta, anche se sempre interessata al concetto di trame e piani prospettici piuttosto che all’immediata rappresentazione dello scorcio, benché permangano forti interessi per le trame architettoniche e le strutture modulari. In qualche modo sembra che all’artista la realtà stia diventando più interessante, dopo esser stata snobbata o al massimo utilizzata come pretesto per dire altro. Un buco, uno squarcio, sembrano aprirsi oltre la tela, come in un Truman Show che progressivamente si sta rivelando. Cosa aspettarci, in una pratica quotidiana e mentale quale è la pittura, è difficile dirlo: sarà una sorpresa.
Udine, 2010
Music for airports
di Micòl di Veroli
Music for airports è il titolo di un epocale sinfonia di Brian Eno pioniere della musica sperimentale nonché videoartista, teorico e contemporaneo maitre-à-penser. Nel lento ed armonico incedere della sua opera, appositamente studiata per le sale d’attesa, la musica si pone come arredamento, le strutture diventano gigantesche scatole in cui il suono si estende libero e diviene parte integrante dell’ambiente.
La stessa musica di Brian Eno riecheggia liquida e sensuale mentre l’occhio si propaga sin quasi a piegarsi attorno alla statica e silente meraviglia degli air terminals di Antonio Bardino.
Lentamente si srotola un’immagine limpida ed asettica, una rappresentazione pittorica ove tutto rimane fatalmente appeso al lucente riflesso dei pavimenti immacolati, superfici ove nessuno transita e mai nessuno sembra aver vissuto. L’aeroporto, frenetico luogo di frenetici gesti legati a repentine sterzate emozionali, si scopre attonito e gravemente assorto nella contemplazione di un altero desiderio di tranquillità siderali. Le pennellate precise e morbide restituiscono ambienti in bilico tra metafisica ed iperrealismo, tra monolitiche e geometriche forme che si inerpicano libere verso i soffitti cesellati sino ad una decadente visione di moderno romanticismo.
Antonio Bardino dipinge viaggi, spostamenti che non lasciano intravedere alti pianori, non mostrano verdi vallate o distese di pietra grigia ove la nebbia fumiga pigra e greve. I viaggi descritti da queste tele intrise di azzurrina uniformità crepuscolare assurgono a metafore perfette delle esperienza umana. Un soggetto, quello dello spostamento sia nello spazio sia nella vita stessa, che lascia ampie possibilità di serrare la narrazione pittorica in un alternarsi di tensioni e di risoluzioni drammatiche che sembrano accostarsi ai modi narrativi di maestri non solo legati alla pittura ma anche alla letteratura ed alla cinematografia.
Traspare in ogni monitor spento, in ogni sedia vuota, in ogni scala deserta, in ogni vetrata che limpida lascia filtrar la luce radiante una sorta di ancestrale forza: lo stesso severo ed oscuro presagio nel tragitto de L’isola dei Morti di Arnold Böcklin, le stesse epiche peregrinazioni di un Ulisse che Omero disperde per nove anni e James Joyce riassume in un sol giorno.
Antonio Bardino scardina le tradizionali coordinate di tempo e spazio animando le tele di un flusso di coscienza ove le forme smussate e livide trasformano e dissecano ogni personale Odissea in due singoli momenti. Un viaggio che offre indistintamente la visione della partenza o quella dell’arrivo, della nascita o della morte mentre la distanza che separa i due punti rimane aperta ad ogni soluzione ed evento affinché la certezza della dipartita e dell’approdo si confondano nel mezzo della frammentaria ed imprecisabile mutevolezza del tragitto stesso, come la più perfetta raffigurazione dell’esperienza umana.
Ogni dipinto è costituito da asciutti ed orchestrali accordi di colore che ruotano su cromie misurate tra il grigio ed il celeste che spesso si getta in nuvole color cobalto, le luci rincorrono le ombre graffiandole di quando in quando con inattesa potenza visiva. Le visioni prospettiche giocano anch’esse all’ambivalenza tra la fuga laterale e la centralità assoluta e granitica. Un rigore geometrico misto ad una perfezione astratta dei volumi che rasenta la monumentalità delle tavole di Piero Della Francesca.
Music for airports potrebbe proseguire all’infinito cangiando di volta in volta dentro sottili sfumature, dietro lenti nembi di colore che traghettano verso il prossimo aeroporto. Nella sua calma ossessiva dalle movenze ipnotiche si cela l’attesa di un colpo di scena che ad ogni nuovo sguardo, ad ogni attento scrutar potrebbe improvvisamente giungere.
Roma, 2007