Da: LA POETICA DEL PAESAGGIO in Simonetta Moro, di Boris Brollo:
Simonetta Moro procede per un sistema artistico ancora legato alla tradizione: carta, carboncino e olio … [usando] come pensiero di riferimento artistico il paesaggio. Paesaggio che ha una tradizione legata, anzi fondata, sul tempo e sulla luce. Il tempo come trasformazione, ma pure come flusso bergsoniano continuo senza la misurazione cronometrica. Il tempo trasformato è reso evidente in Simonetta Moro che dilata il paesaggio dentro il concetto di traccia, soprattutto di impronta che segna le linee personali biometriche delle mani, ma che è diversa quale impronta di ognuno. … [Moro] parte dal flusso della coscienza che si collega alla memoria. Memoria di tempo storico che raccoglie l'anima del passato per proiettarla nel futuro. Ognuno di Noi ha un'idea del paesaggio formatosi nella sua esperienza esistenziale. La Moro rende questa memoria plasticamente dentro una pittura "romantica" nel senso di personale, non storicizzata, non legata a precedenti artistici.
Testo critico pubblicato in occasione della personale “Poetica del Paesaggio” all’Androne Bolzicco Arte, Portogruaro (VE), 2023.
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CARTOGRAFIE PITTORICHE, RISVEGLI DELLA MEMORIA: Intorno all’arte di Simonetta Moro, di Claudio Cerritelli:
C’è una premessa critico-teorica di cui bisogna tenere conto commentando le opere di questa esposizione, una considerazione preliminare che sostiene le ragioni su cui si fonda il linguaggio pittorico di Simonetta Moro.
Si tratta di una concezione creativa che rifugge dagli sperimentalismi esercitati in nome della novità a tutti i costi, una riflessione che accompagna i modi di ritrovamento del passato e i relativi percorsi di assimilazione.
C’è, inoltre, nella prospettiva estetica dell’artista, l’esigenza di dare nuova sostanza immaginativa alla citazione di documenti cartografici dispersi negli archivi del mondo, di riproporne la lettura con gli antichi mezzi del disegno e del colore, strumenti di rappresentazione per disvelare le possibilità future dell’eredità del passato.
Non a caso, un’immagine cara alla coscienza critica di Moro è quella dell’Angelus Novus di Paul Klee, l’angelo della storia che Walter Benjamin ha interpretato come figura simbolica con lo sguardo che fissa le rovine del mondo, le spalle rivolte al futuro, quasi costretto a sublimarsi nel silenzio, a tacere di fronte alle identità infrante del visibile.
Alla vastità indicibile di questo silenzio alludono gli scenari di depredata bellezza che Moro trasfigura con il suo stile inconfondibile: ricreando apparizioni di segni sepolti o in via d’estinzione, luoghi di sopravvivenza della memoria, schegge di una bellezza ferita, degradata e senza scampo.
L’artista-cartografa nomina senza reticenze i riferimenti delle sue trasmutazioni pittoriche, esse attingono a fotografie e documenti d’archivio, reperti di riviste e giornali, mappe militari e atlanti geografici, icone emblematiche legate al Medio-Oriente e all’antica Palestina, riferimenti che vanno dall’impero Austro-Ungarico a quello Ottomano, eventi del primo conflitto mondiale, con uno sguardo ad alcuni artisti futuristi che scomparvero in guerra (Boccioni, Erba, Sant’Elia).
Nel ciclo delle “grandi illusioni/grandi delusioni” (2014) Moro rompe i consueti argini narrativi, adotta la compresenza di elementi figurali e tracce verbo-visive, attraverso un proliferare di frammenti e dettagli iconografici, forme descrittive e grafie scritturali, lacerti indelebili tra loro sovrapposti con fluida logica cumulativa. Oltre a recuperare le orme e i lineamenti di percorsi antropologici, questo ciclo di opere (realizzate con pastelli a cera e inchiostri di china sul velo translucido del mylar) esprime differenti livelli di senso, memorie collettive e storie individuali, flussi spaziali e risonanze temporali, nutrimenti immaginativi per sognare il futuro attraverso la consapevolezza critica del presente.
La sequenza espositiva è, dunque, un viaggio tra il visibile e il sommerso, tra figure riconoscibili e impronte celate nelle incrinature sotterranee, percezioni indistinte affidate a labili palinsesti di smisurate stratificazioni.
L’indagine delle epoche anteriori è per Moro desiderio di appartenere al “teatro del mondo” attraverso un’operazione di lento scavo mentale, processo da lei stessa definito “archeologia pittorica della memoria”.
Questa prospettiva non ha nulla di restrittivo o dogmatico, ripensare l’eredità della storia significa aprire il pensiero a nuove possibilità conoscitive in grado di illuminare il volto opaco del passato.
Nella ricognizione sistematica dei luoghi anche il reperto meno appariscente rivela una tensione rivolta al futuro, un’amplificazione del ruolo dell’arte oltre i canoni linguistici e i parametri classificatori che spesso rispondono al gioco combinatorio di aridi esercizi stilistici.
Contrastare questa pianificazione riduttiva della conoscenza è l’impegno che Moro persegue nelle sue carte di paesaggi immaginari, infatti le mappe iconografiche non sono mai citazioni erudite fine a sé stesse ma tramiti di pura sensibilità disegnativa, pre-testi di interiorizzazione pittorica.
Il carattere dominante è il punto d’osservazione elevato, la cosiddetta veduta panoramica, lo sguardo a volo d‘uccello, un’ottica planimetrica dove il controllo degli elementi scenici svanisce gradualmente nell’atmosfera corporea delle materie, nel mutevole affiorare della “forma urbis”.
I soggetti archeologici sono trasfigurati dalla polvere del colore, dallo sfioramento delle linee, in alcuni fogli le forme sono simulacri di un’umanità travolta dai suoi malesseri ma anche dai segni della caducità.
Con accurata perizia, Moro comunica pensieri mai indifferenti ai luoghi osservati, tesi piuttosto a far palpitare con tratti misurati le dolenti morfologie dei territori sfaldati, conferendo durata al loro aspetto precario.
Ogni immagine si anima attraverso lineamenti e sedimenti cromatici, segni frantumati e dettagli architettonici, tramiti per cogliere l’atmosfera inconfondibile delle rovine, il vuoto e la desolazione che da esse affiora. Analitico e al tempo stesso emozionale è lo sguardo con cui Moro penetra negli interstizi degli orditi geologici, la rappresentazione delle città antiche oscilla tra reperti riconoscibili e astratte parvenze, luminose trasparenze e offuscamenti, effetti d’ombra e tonalità sfumate, valenze pittoriche in sintonia gli echi del passato come rispecchiamento del presente.
Descrivere i fantasmi di questo Theatrum Mundi significa attraversarne le latitudini fino al punto di smarrire una logica lineare, annullare i confini definiti, immergersi nelle apparizioni latenti dell’invisibile, in ascolto delle sonorità misteriose di mondi lontani e immisurabili.
All’inizio del percorso si è attratti dall’idea che ogni mappa può essere osservata liberamente, e questo può anche essere plausibile, in realtà miglior lettura è quella che interpreta le strutture reticolari come evocazione di territori assediati, corpi urbani segnati da profonde cicatrici (Kut, 2016).
I tracciati si addensano e si diramano dal centro verso i lati, essi sono generati dalle trafitture del segno, i tratti decisi del nero si sfaldano e svaniscono nelle sfumate consistenze del grigio, nei vapori rarefatti che avvolgono l’agglomerato, quasi prossimo a perdersi nell’indistinto nulla.
In un altro foglio, la rappresentazione della città è sfiorata da lievi palpiti di colore, segni e macchie appena accennati come se la luce provenisse dal fondo, agendo da dietro, sotto l’epidermide del visibile (Palmira I, 2016). Altrettanto stupefatta è la visione panoramica che dal primo piano risale verso l’alto, quasi a sconfinare oltre l’orizzonte, superando l’ultima barriera dello sguardo (Palmira II, 2016). Il ritmo compositivo è scandito da resti di colonne disseminate in campo aperto, spaesate rovine sopravvissute alle impervie vicende della storia, opache spoglie di un tempio perduto, memoria del suo antico splendore.
D’altro lato, l’andamento radente dei tratti segnici e cromatici ruota intorno a mirabili vestigia ormai senza tempo (Aleppo, 2017), immagine permeata da vibrazioni che si espandono dal nucleo figurale verso l’indeterminato respiro del vuoto, abitato da fluenze di indistinta luminosità.
Il velo della luce è come un filtro mentale diffuso su tutta la superficie, disposto con la stessa intensità in ogni punto della visione planare, questa sua specifica qualità risulta evidente soprattutto quando dichiarata è la natura eterea del colore. Dimensione ancor più accentuata dalla presenza spaesata di un aereo proveniente dal di fuori, metafora dell’artista che osserva a debita distanza il fantasma della città (Jerusalem, 2017).
Prospetticamente differente è il colpo d’occhio giocato sullo spostamento trasversale del punto di vista frontale (Samaria-Sebaste, 207), questa visuale laterale impone all’immagine un ritmo strutturale che l’artista rende fluido e palpitante attraverso la frammentazione impulsiva del segno pittorico.
Di tutt’altro tenore costruttivo è la visione di Ur (2018), l’assetto spaziale è delineato con fermezza compositiva, simile a una fortezza che racchiude gli eventi stratificati della storia, luogo protetto dalle insidie dell’oblio.
Le varianti iconografiche che Moro mette in scena sono aperte anche a radicali mutazioni stilistiche, è quanto avviene nel paesaggio barocco di Mosul (2018), immerso in una luce livida e oscura, densa e avvolgente nelle sue inquiete metamorfosi. Esse rispondono alle forze contrastanti della natura, alle meraviglie luminose dell’ombra, alle ambivalenze percettive che la scrittura segnica e cromatica esprime con avvincente seduzione.
In sintonia con le intersecazioni del passato-presente si incontrano altre occasioni immaginative, l’opera dedicata a Venezia (2017) evoca la bellezza di una città eternamente in preda al mito di sè stessa.
In tal senso, l’immagine simbolica della mappa è un monito a difendere la fragilità della sua bellezza, minacciata dalle erosioni del tempo ma soprattutto assediata da politiche ambientali di tipo speculativo.
E’ infine evidente che ciò che collega le tematiche antiche alle ripercussioni contemporanee non è solo il filo iconografico che le unisce, piuttosto la speranza di trasmettere per loro tramite emozioni conoscitive ed estetiche.
Anche se questo anelito corrisponde a un’improbabile utopia messianica poco importa, importante è saperla realizzare attraverso la trasfigurazione intenzionale del dipingere. E questo avviene con quella sensibilità che Moro sa infondere ai suoi ritrovamenti, risvegliando l’attenzione del lettore con immagini che dalla storia collettiva affiorano sulla soglia della visione interiore, che è in definitiva il messaggio rivolto alla coscienza di tutti.
Da: Theatrum Mundi, catalogo della mostra personale alla Galleria del Carbone, Ferrara, 2019.