Indice Artisti e Poeti

    Recensioni sull'artista Ugo Gangheri

    Roberto Zoratto

    Ugo Gangheri ha sviluppato la sua passione artistica in ambito famigliare dove ha potuto ammirare le opere del padre, un pregevole pittore dilettante: opere che lo hanno influenzato e delle quali possiamo ancora individuare alcune tracce nella sua produzione recente. Nella sua lunga carriera ha saputo guardarsi intorno ed assorbire ciò che riteneva più funzionale alla sua poetica ma con particolare attenzione alla produzione di alcuni dei maggiori esponenti dell’arte italiana del ‘900. Da essi ha tratto dei suggerimenti che ha sapientemente interiorizzato e valorizzato e che, con le opportune modificazioni dettate dalla sua diversa sensibilità, ha adattato alle esigenze della sua poetica e fatti diventare le colonne portanti del suo personalissimo e originale modo di esprimersi.

    Sulla scia di Morandi usa i colori con tonalità sobrie, armoniose ed equilibrate, dall’effetto quasi polveroso, componendo ed articolando la varietà delle campiture secondo la loro gradualità tonale con la stessa sapienza del maestro bolognese quando schierava i suoi amati oggetti di studio – vasi, bottiglie e caraffe – che, in quanto erosi dal tempo, rivelavano la loro precaria presenza. Così come Morandi faceva con le caraffe e le bottiglie, anche Gangheri fa con le sue forme: le dipinge e le consegna alla contemplazione ed alla dimensione di un eterno immutabile.  

    Sulla scia di Burri sceglie di utilizzare la tela di sacco come supporto principale per la realizzazione dei propri lavori e, in accordo con l’artista umbro, attraverso l’assemblaggio di materiali diversi, coglie appieno le potenzialità della materia restituendole un diritto di cittadinanza nel processo pittorico assieme agli altri elementi della pittura come la forma, il colore la composizione ecc. Interviene dunque su di essa ma in modo meno grossolano. Infatti, non prende in considerazione i rattoppi del maestro umbro, le sue sovrapposizioni, i suoi buchi, le sue legature e cuciture che sembrano cicatrici, ma agisce anche lui sulla materia che, grazie alla sua malleabilità e duttilità, diventa metafora di quel gesto creativo che avvicina l’uomo a Dio. Però lo fa in modo più garbato, piegandola comunque alle sue esigenze espressive e intervenendo sulla regolarità dell’incrocio trama/ordito nei punti che gli sembrano più funzionali all’immagine che desidera ottenere: non lascia, come nelle “plastiche” di Burri, che l’opera divenga, si autodetermini, ma fa in modo che essa assecondi il suo pensiero.

    Sulla scia di Fontana, al posto dei tagli, corrompe la trama e la compattezza del tessuto, con un processo di de-tessitura, quasi volesse aprire uno spiraglio verso la terza dimensione per il quale lo sguardo dello spettatore potesse passare attraverso la materia e giungere alla visione del nascosto, dell’invisibile, di ciò che si cela dietro la superficie pittorica, di ciò che manca o va oltre la sua piena realizzazione. In sostanza Gangheri non adotta l’approccio chirurgico, quasi violento, di Fontana sulla materia come le ferite slabbrate, prodotte sulla tela, stanno a dimostrare, ma si limita ad una sottrazione controllata della materia nei punti che gli sono più congeniali.  

    Sulla scia di Afro, infine, adotta l’uso delle velature, delle interconnessioni e sovrapposizioni delle forme, con la differenza che in Basaldella le campiture di colore sembrano vibrare e muoversi come se fossero innervate da stimoli di ansia e di inquieta attesa. Le forme di Gangheri invece esprimono un senso di serena pacificazione grazie ad un maggior controllo sulla loro compostezza e sui toni di colore affinché non assumano involontarie e non funzionali accensioni di toni. Si può dire che Gangheri faccia risuonare le sue forme ed i colori della sua tavolozza come note di un’armonia musicale e secondo il ritmo di una indubbia sensibilità cromatica.

    A seguito di una personale e profonda riflessione spirituale, da credente piuttosto che da religioso, attraverso la quale pensa di pervadere il campo dell’umano, con le sue lotte, le sue pene, le sue contraddizioni e le sue false celebrazioni Gangheri sviluppa una pittura fatta di un gioco di ombre, di forme ectoplasmatiche, irregolari e spesso evanescenti, con una spiccata attitudine a ripescare un ricordo dalle pagine della memoria, ritrovare le tracce di un’emozione perduta, evocare ed illuminare una presenza. Non si tratta di una rievocazione nostalgica e melanconica che si rivolge ad un passato perduto con rimpianto, piuttosto di una commemorazione del passato per prepararsi ad accogliere e celebrare il futuro. 

    I dipinti di Gangheri, dunque, potrebbero tranquillamente proporsi come icone della modernità, schierate nell’iconostasi di una basilica laica, pronte ad offrirsi allo sguardo dello spettatore per guadagnarne l’anima. Il pittore di icone non dipinge ombre in quanto la loro presenza ostacola la rivelazione della verità, ma lo sforzo di Gangheri è quello di emancipare - nonostante i chiari/scuri, le luci e le ombre - i suoi lavori facendoli assumere il carattere dell’icona che si manifesta nell’inseparabilità del mondo fisico da quello metafisico, dell’immanente dal trascendente, del sensibile dal sovrasensibile, perché uno esiste solo in ragione dell’altro. E’ attraverso di esse che Gangheri ci rivolge un messaggio di speranza ed una manifestazione di fiducia, che fonda sulla base del suo sentimento panteistico e sulla convinzione che – parole sue – “l’abbraccio tra l’uomo e la natura possa farci recuperare e celebrare i valori della vita nella loro sacralità universale”.

    Udine, maggio 2023

     

    Donatella Nonino

    Osservando le opere di Ugo Gangheri si scopre il materiale di base con cui esse sono composte: sacchi usati per il trasporto del caffè. Nelle crettature che soggiogano la materia si trovano compromessi con il colore, con il ritmo geometrico, generosamente armonico, in una semantica interpretazione del viaggio interiore attraverso lo scandire lento del tempo che rappresentano.

    La sua opera diviene linguaggio inconsueto, autonomo e restituisce una forma capace di trasferirsi dall’opera visiva al nostro percepito. Ci troviamo così ad inseguire il nostro mistero intimo e capaci, finalmente, di fermarci, di cedere alla lentezza del procedere, quasi a ritrovare il misticismo insito in noi, chiuso e racchiuso in strade abbuiate.

    L’incontro di materiali così diversi come carta e tela di sacco con inclusioni di colore e ferro consunto dal tempo, si compenetrano con rarefatto equilibrio, ristabilendo un ordine delle cose che egli ci propone. La nostra osservazione diventa così esercizio meditativo, un privilegio di percezione, privo di ogni nostalgia del passato e come ordine delle cose per ritrovare la via.

    Nel ciclo tematico “Abbracci” abbiamo la sensazione che la fusione delle trame che cede al passaggio del colore, rappresenti l’azione che dovrebbe appartenerci per poter attraversare, oltre l’immagine, un nuovo varco, un nuovo orizzonte. Ci permette inoltre di transitare attraverso la creazione e percepire come egli abbracci il suo sentire, mentre i pensieri trascendono, trasformandosi in azioni artistiche dove le mani, accostando fragilità e durezza sulla superficie della trama, assumono quel potere di mutare le cose.

    “Il cielo che è dentro e fuori di noi contagia il nostro incedere” afferma Gangheri. Nelle sue tele “il cielo” si trasforma in un calice, dal quale l’Uomo può nutrirsi. Questo grande valore della vita, il rispetto di essa, emerge nel ciclo “Umanità”. In questo ciclo possiamo scoprire quanta fiducia l’artista riponga in tutti gli esseri senzienti: la strada segnata, illuminata, la si può percorrere in diversi modi.

    La scelta di un materiale povero e ingiustamente definito fragile, come può essere il sacco di juta che porta il caffè durante il suo lungo viaggio attraverso terra e mare, è di per sé metafora più che calzante dell’essere umano. 

    Nel ciclo “Tracce” emergono le capacità insite in ognuno di noi di superare confini e ostacoli materiali e psichici e ci pone la domanda di quanto siamo consapevoli nell’essere padroni del tempo e di quanto, invece, sia il tempo a gestire la nostra esistenza.

    Gangheri nella sua ricerca quarantennale, si è appropriato di un proprio linguaggio pittorico, di una propria cifra artistica. I segni, i materiali, le trame, i titoli, sono parti che compongono la poesia dell’opera e sono alla base di un approfondimento evolutivo sull’Uomo. Il suo lavoro è un sedimentare attraverso il tempo delle esperienze. 

    Negli anni sessanta Gangheri, ancora ragazzo, oltre ad ammirare i quadri del papà è affascinato dalla pittura di Van Gogh per il segno, i colori, la spontaneità. Nel tempo egli, ormai artista maturo per anagrafica e professionalità, evolve attraverso la conoscenza e l’ispirazione di tanti altri Maestri.

    Non è una musica quella che lo accompagna nel centellinare dello svolgersi del suo lavoro, ma sono i suoni che l’umanità restituisce e segna nell’aria, nell’etere, pregna del segno dell’uomo e vissuta dentro e intorno a se stesso. Egli lavora nel suo studio immerso nella campagna friulana, dove i suoni che entrano dall’esterno gli offrono la percezione di essere parte integrante della natura e gli restituiscono la bellezza e il mistero della vita, quel mistero che ritroviamo affiorare con forza nelle sue tele.

    Dal 2006 Gangheri utilizza per i suoi lavori sacchi grezzi di juta. Nel 2010 inizia “a togliere i fili”, una litania introspettiva, un rituale, un mantra che gli permette di inseguire il mistero. Il materiale consunto dei sacchi da caffè, carichi di storia e di viaggio, di fragilità e durevolezza sono “Tracce” che conducono alla ricerca da dove veniamo e cosa lasciamo dopo di noi. Il parallelo delle risposte si può trovare nella tangibilità dell’archeologia, che ci permette di scoprire le civiltà che ci hanno preceduto, facendoci sentire parte di un unico disegno e riconoscendo che anche quel percorso millenario è scritto dentro di noi.

    Marzo 2023


    Donatella Avanzo 

    Scrivere di Ugo Gangheri non è cosa semplice. Egli opera, in maniera sorprendente, sulla vicinanza di materia e materia, sulla variazione di superficie, sulla sostituzione di un colore con componenti di colore simile ma molto più ricchi di informazioni (lastre di ferro, carta, scarti industriali), derivanti dalla loro consistenza fisica, dal loro uso precedente e dal loro eventuale vissuto; infine, opera mediante l’origine dei contrasti tra materie diverse e attraverso un istintivo impianto geometrico dell’immagine da ottenere.

    Ciò che è più importante nell’analisi dell’artista è il raggiungimento della forma e dello spazio mediante un rapporto di raffinato equilibrio tra i diversi elementi materici che si concretizzano in ogni sua opera.

    Attraverso la detessitura di vecchi sacchi di caffè crea la forma geometrica da cui ha inizio la costruzione del suo atto artistico, come per esempio in “Vitalità imprigionata” dove il ferro arrugginito fronteggia lo sguardo dell’osservatore con fierezza e precisione.

    Le sue opere sono venate da una grande spiritualità, con sviluppi formali che negli anni lo avvicinano a certe atmosfere dell’Arte Povera.

    Le lame metalliche che paiono incidere e squarciare la scomputata trama della iuta attivano il suo linguaggio pittorico e ci spingono a vederci riflessi nelle nostre inevitabili fragilità.

    Fragilità, ma anche inesauribile energia vitale rappresentata dai bagliori dell’incorruttibilità dell’oro presente anche nelle essenziali sculture esposte per la prima volta in questa mostra 

    Il ricorso a entità organiche e inorganiche trasforma il suo linguaggio in un’esperienza corporea intesa come trasmissione sensoriale.

    La vita pittorica di Ugo Gangheri è stata influenzata da artisti quali Burri, Fontana, Tapies, ma soprattutto da suo padre, anch’egli pittore e appassionato d’arte, che ha saputo trasferire in lui il dono della sensibilità che sta nella capacità di mettere in movimento e in discussione la forma.

    Il suo interesse è quello di studiare gli aspetti materici dell’arte e le sperimentazioni che conducono l’artista e lo spettatore oltre la superficie del quadro.

    In tutta la sua ricerca egli svilupperà anche una relazione del tutto personale con la cultura e l’instabilità sociale della storia attuale che porterà alla realizzazione di cicli tematici:

    Tracce, in cui ricerca la sacralità dell’esistenza;

    Muri, dove esplora le barriere che si creano nella società e nell’animo di ognuno di noi;

    Umanità, con la sua riflessione sull’atteggiamento evolutivo dell’Uomo.

    La ricerca costante di materiali che parlino della fragilità dell’essere umano viene riconosciuta dall’artista nelle lastre di ferro corrose che diventano simboli di quel male che è dentro di noi, che ci devasta e indebolisce, ma che può essere compreso e trasformato in energica creatività per concretizzare rilevanti opere artistiche.

    Nei suoi lavori è sempre presente un gioco di metamorfosi e contrasti quali, per esempio, carta e ferro: leggerezza e pesantezza si incontrano in un quieto dialogo che tende ad armonizzare gli elementi. Il contrasto serve da cortocircuito visivo che spinge l’osservatore a fermarsi per comprendere il significato di quella vicinanza.

    Ugo Gangheri, attraverso il dialogo tra materia organica e inorganica, è espressione di quella cultura e di quella storia che si oppone alla distruzione e all’oblio di questa nostra società detta Umanità. 

    20 marzo 2022

     

    Fabio Merotto

    Siamo abituati ad osservare che in una tela dipinta diventa spesso principale il soggetto rappresentato e i colori stesi, seppur con qualsiasi tecnica, sul supporto. In questi lavori di Ugo Gangheri è proprio il supporto ad avere senso nella sua pittura.

    Tra l'altro si sono invertiti di ruolo il mezzo e il fine. 

    Se la tela, per necessità, è il mezzo e la pittura è il fine, con il suo fare Ugo Gangheri ha ribaltato la consuetudine, ed è proprio questa azione che ci pone delle riflessioni.

    Nei suoi sacchi, quindi, la pittura è il mezzo e la tela è il fine, il risultato e l'obiettivo del suo atto creativo.

    Quindi la sua pittura si ribalta; pare che la sua non sia una tecnica mista su sacco, bensì un sacco su tecnica mista. Gli esiti della sua pittura sono stati rivoltati come un tessuto in cui le cuciture sono messe in evidenza e non appaiono scomode. 

    Le cuciture sono linee che dividono il sacco in più piani pittorici che dialogano tra loro, senza che uno prevalga sull'altro.

    I sacchi sembrano imbevuti di colore e l'autore fa emergere le diverse tramature che fanno rima con le campiture di colore. 

    Nei suoi sacchi la materia è supporto.

    La ruvidezza della materia è sinonimo di sacrificio, fatica e sudore per il lavoro nelle piantagioni di caffè, come si legge nelle geometrie che l'autore pone in evidenza.

    Un'opera non solo va osservata ma anche letta per fare nostra un'esperienza personale.

    5 gennaio 2019


    Alessandra Santin

    Cecelia Ahern ricorda a Ugo Gangheri che è necessario scartare cose per trovare la materia che meglio si presta al proprio sentire. La trama di vecchi sacchi industriali, sottoposta a detessitura, gli consente di sconfinare oltre il visibile. Trafori e composizioni sapienti dichiarano quanto l’Oltre e l’Alto rappresentino i suoi punti di ri-ferimento.

    Lo sguardo si eleva nella sacralità delle forme e nelle ferite orizzontali suturate. La carica simbolica di antichi dei primordiali, nell’immobilità rituale, annuncia valori inalienabili.

    La bellezza di certe tinte inedite, in dialogo con la ruvida evidenza della materia trova, nel contrasto e nell’opposizione, le vie dell’armonia, del dialogo poetico che sempre rinnova la lettura. Il risultato, astratto e figurativo, è leggibile e oscuro allo stesso tempo; è la conseguenza di un processo costruttivo elaborato, la cui percezione che ne consegue è sempre lenta. Nelle opere si annida una morfologia invisibile che è la parte integrante più significativa del lavoro.

    Essa va pazientemente cercata. Trovarla è emozione pura, canto opaco di luce palpitante.

    Ottobre 2017


    Licio Damiani

    La pittura di Ugo Gangheri come avventura dello spirito, come esperienza artistica vissuta in connessione dinamica con la realtà esistenziale, sembra tradurre in immagine le tensioni cromatiche, i contrasti tonali, l'estrema complicazione e la raffinatezza della dodecafonia. Le opere più recenti assorbono e reinventano in termini personalissimi la tradizione del cubismo, del dadaismo, del neoplasticismo, rileggono il fervore fantastico di Kandinskji, restituiscono con un linguaggio estremamente libero e tutto inventato le astrazioni favolistiche, l'arcano potere d'incanto, l'apparente ingenuità, le sembianze di pietre preziose, affioranti nelle opere di Klee. L'immediatezza del gesto pittorico, trattenuta entro strutture di una geometria dell'immaginario, compone enigmatici paesaggi interiori, fastosi caleidoscopi di luci, incandescenze e grotte d'ombra.

    Si dispiegano equilibri di spezzoni blu, celesti, gialli e frammenti d’arcobaleni rossi e violetti, “cinture” azzurre raccordano scaglie arancione, cunei madreperlati, mezzelune inchiodate su cieli di nero-carbone. S’impennano magiche tastiere di gialli e di carmini, di bruni, di terre di Siena, d'incandescenze dorate, di opalescenze, di grigi perlati, di verdi profondi, di cilestri. Allucinazioni agglutinate di elementi indefiniti si riflettono e rifrangono in moltitudini di specchiere. Bagliori fiammeggiano su tarsie brune e grigie. Quadrangoli irregolari, elementi trapezoidali, fasce, rettangoli, cerchi s’incrociano e si compenetrano componendo cromatiche sinfonie. Il colore, il disegno, le masse plastiche si articolano in un’armonia di forme pure, opulente. Sono visioni rigorose, antidecorative, espressioni di un sognante raccoglimento fondato su un intenso afflato contemplativo.

    A partire dal 2010 affiora nella pittura una severa umiltà francescana. L’utilizzo della bellezza fragile della tela grezza di juta, che per certi aspetti apparenta il friulano Gangheri all’umbro Burri, sembra far risuonare mistiche “voci del silenzio”. Il sacco di caffè – ha scritto l’artista – da materiale di trasporto, stivato nelle navi e depositato nelle fabbriche, continua a vivere trasfigurato da interventi sulla trama, si colora con le tinte dei luoghi ideali di partenza e di arrivo, diventa visibile negli spazi espositivi.

    Utilizzando colori a olio intrisi di acqua ragia e colle resinose ottiene insoliti contrasti di atmosfere lucide e opache, elaborando articolate, flessibili, lucide litanie. Sui fili tattili annodati e intessuti d’una materia la cui povertà esalta la delicatezza lirica, semplici purissime forme elaborano sequele liturgiche intrise d’una pacata musicalità gregoriana.

    Riflessi di conopei, i tessuti che velano il tabernacolo eucaristico, riverberano orfici sentimenti d’attesa. Oltre i luoghi, oltre i pensieri – afferma l’artista – risiede l’ignoto, dimora il mistero, esplode il sentire, s’irradia la luce dell’anima. 

    Quadri come tarsie, tracce, impronte, o come icone laiche sottese da una sacralità interiorizzata, rebus complessi ricchi d’insondabili precetti, di segrete pulsioni del cuore. Suggestive reliquie del presente che veicola la purezza attraverso l’impurità, si propongono quali sudari del mondo contemporaneo attraversati da una sottile fisicità, torbidi come certi catrami, anche se in grado di abbagliare all’improvviso per insospettati lucori simili a lame di luce nei mattini invernali, intrisi a volte come di teneri sentimenti d’umiltà e di mansuetudine, altre volte carichi d’una implacabilità austera e laconica. L’artista riproduce quanto nella sua mente vede di eterno e d’immutabile, tenta di rendere visibile l’invisibile, attraverso la materia aspira a raggiungere l’immateriale in tensione verso la trascendenza dell’assoluto. Egli è pittore-filosofo che elabora con trascendentale pazienza incantamenti alchemici.

    Settembre 2014


    Walter Schönenberger

    La ricerca di un artista è essenzialmente un percorso (a ritroso, nel profondo) verso la definizione della propria identità: ciò che, al di là della specificità dell’artista, è il cammino che si propone (dovrebbe proporsi) ogni uomo. Ugo Gangheri, da molti anni artista nel tempo libero, da pochi, dopo il pensionamento, è artista a tempo pieno e non sfugge a questa regola. La sua produzione può essere divisa in due grandi raggruppamenti che delineano una sorta di “prima” e di “dopo”: nel secondo, che coincide con il raggiungimento di una completa dedizione alla pratica artistica, si assiste al progressivo affermarsi di uno stile, al delinearsi di un’immagine interiore, di una propria immagine simbolica che è riconoscimento della propria specificità e capacità di esprimerla e di proporla senza gravami illustrativi. Ed è su questa produzione matura che s’impernia la presente mostra.

    Nel periodo precedente, un paesaggio aveva fissato l’attenzione dell’artista diventando un’immagine ricorrente: la veduta di Cividale, con davanti, in primo piano, il ponte sul Natisone. Il ponte verticale, al centro del quadro, le case della città, i monti retrostanti, come un susseguirsi di strisce di colore. Codesta veduta diventa il nocciolo di una ricerca che a poco a poco si sgancerà da una resa naturalistica del soggetto: diventerà canovaccio per un’immagine interiore sempre più definita.

    Dal 2005 in poi, i titoli diversificati non ci sono più; rimane un impianto, i particolari descrittivi del dipinto scompaiono. Un approccio a una non figurazione che non sarà mai tale perché rimarrà comunque ancorata a una realtà percepita. Codesta immagine è anche una proiezione di una visione interiore (come spiegato prima): una fuga verso l’orizzonte che indica l’infinito. Da questo momento i quadri saranno contrassegnati da un’unica definizione: “Il viaggio”.

    Sull’orizzonte della composizione appare una teoria di figure incamminate, una dietro l’altra, che si tramuta in una scansione di segni. Una nuova immagine archetipa è definita. Un corteo è figure in movimento, un passare. Ma a volte il fluire ha pause: nell’orizzontale compare un’immagine statica evocante un’attesa.

    Codesta immagine ne viene spesso incorniciata dal resto del dipinto, formando un quadro nel quadro; in tal modo ogni riferimento naturalistico è cancellato. Nasce lo spazio indefinito della memoria in cui guizzano figure accennate di giocattoli colorati: “Ricordi fanciulli” (così li chiama il pittore concedendosi una spregiudicata libertà nei confronti della lingua!). A livello tecnico, una novità: i ricordi sono immagini accennate con immediatezza gestuale.

    Nella produzione recente (che è quella che ci riguarda più da vicino), il tema del viaggio” e il tema dell’”attesa” si ripetono, si combinano in numerosi varianti. Questo iter è discesa nelle profondità di sé stesso e contemporaneamente impossessamento di una pennellata sempre più fluida e di una gamma cromatica sempre più riconoscibile. Ugo Gangheri vi ha incontrato il proprio stile, la propria musica interiore, il proprio contenuto. Accantonata la descrizione del “viaggio” in una teoria di soggetti incamminati, come in processione, torna l’immagine del ponte, non più librata verso l’alto, come nelle precedenti vedute di Cividale, ma ricondotta al “viaggio” interiore: discesa in sé stesso che è anche ponte verso l’altro. Questo doppio movimento genera una figura simbolica doppia che vagamente ricorda due persone unite da un arco (o da un “ponte”). Si precisa una sorta di nuovo glifo che è anche la firma dell’artista. Il viaggio, fino a questa nuova immagine, è stato anche individuazione di sé stesso, di un proprio discorso prettamente pittorico, con i colori che da tonali via via si sono fatti timbrici e ora cominciano a brillare puri come soggetti liberati. In questo modo Ugo Gangheri si è guadagnato il titolo di pittore di tutto rispetto e di notevole spessore.

    Giugno 2008