Indice Artisti e Poeti

    Pubblicazioni del critico d'arte Boris Brollo

    NATIVITA' di Giorgio Celiberti

    La Natività, installazione di Giorgio Celiberti posta nella Chiesa di San Giovanni dei Battuti in Spilimbergo, ha una strutturazione plastica di una estrema semplicità: tre pecore, il bambino Gesù, una "nuvola" di croci che sembrano stelle cadenti, racchiuse in una gabbia di ferro che le sostiene. Queste poche presenze, rispetto al solito presepe, danno all'installazione una asciuttezza simbolica che rende il tutto un insieme Mistico. L’indovinata collocazione ai piedi dell'altare, con sopra dipinta una Crocefissione medievale di grande pregio e forza espressiva, crea un asse estetico fra il Gesù bambino, posto a terra, e la Crocefissione che lo sovrasta quale rimando ad una visione estatica immediata. Il simbolismo degli elementi usati fa sì che la memoria ripercorra la vita del Cristo, dalla nascita alla morte, proprio perché l'occhio raccoglie con lo sguardo il bimbo da terra e lo lega immanentemente alla Croce disegnandone la vita e la passione dentro un'intuizione mistica unitaria. Inoltre le pecore rimandano alla parabola del Buon Pastore, di cui si avverte lo spaesamento delle povere bestie senza la giusta Guida. E le Croci che scendono dall'alto, come stelle fissate ad un soffitto, dentro la struttura metallica (La stalla di Betlemme?), portano all'idea del Creato teologico e ci invitano alla meditazione, alla preghiera, in quanto noi stessi simili alle stelle dell'Universo. Un'opera, quest'ultima di Celiberti, resa unica per unitarietà e capacità estetica, e che resta nel cuore e nella mente per la sua unità spirituale aperta a credenti e non; così rinnovando il concetto di Presepe cui la tradizione ci ha abituati.

    Dicembre '21


    L'AVVENTURA ARTISTICA DI BIAGIO PANCINO

    L'avventura artistica di Biagio Pancino origina dalla decisione di Frà Nevino (Nevino Stradiotto), pittore sanstinese più anziano che, dopo aver visto i quadri di Pancino, gli offre un viaggio di formazione a Parigi. Biagio (d'ora in poi descritto come BP., ché così si firma) va a Parigi, se ne innamora e vi si stabilisce nel 1952. La scoperta della Città con i suoi musei è un incanto e, inebriato, il Nostro copia tutti gli artisti che vede, cercando di carpirne lo stile. Nasce l'amicizia col poeta Romano Pascutto, fra l'altro compagno di fede politica, che visti alcuni disegni di questo giovane artista (allora aveva ventidue anni circa) gli chiede di illustrare il poemetto: Cammino e Canto con Loro, che vincerà il Premio Cattolica di poesia, ma senza i disegni di BP., con una copertina disegnata a linoleum, invece, da Armando Pizzinato. Questo perché l'editore non aveva fondi bastanti. Una quarantina di queste "carte" giovanili si possono vedere nel foyer del teatro sanstinese intestato allo stesso Pascutto. Ma è negli anni Sessanta che BP. spicca il volo. L'incontro con il collezionista Avril gli permette di avere uno stipendio, in cambio di opere, che gli consente di vivere in tranquillità per alcuni anni. In questo periodo egli studia il "segno futurista" prima rigido poi fluttuante. Ed è in questo stesso periodo che avvia una serie di opere materico/gestuali che rimandano alla campagna veneta, ai suoi campi di grano, ai suoi plumbei temporali dal cielo basso colmo di lampi e quindi sferzate di saettanti colori gialli dentro il blu e i verdi del granoturco. Una pittura potente di grande impatto visivo legata al tempo dell'informale parigino degli anni Cinquanta che si andava spegnendo dalla parte dei maestri, ma non in quella di geniali epigoni come Biagio Pancino. Negli anni Settanta il segno si fa strutturato. Si muove per grandi linee spezzate come nelle saette e qui si ricollega ai dipinti futuristi di Balla, Russolo e Depero. Quindi sviluppa queste grandi linee spezzate nella stanza di Lidia, sua collezionista assieme al marito, e mette in scena a Ginevra l'opera: Parcours, 200 metri di potente pittura alta 220 cm. In quegli anni espone con grandi artisti come Daniel Buren e Niele Toroni. Pubblica una riflessione su cos’è la pittura intrinsecamente come concetto di spazio e colore, in fogli dal titolo: Boite de Peinture-Peinture de Boite che raccoglie le idee sulla pittura dal 1969 al 1973. Questa riflessione lo porta ad una destrutturazione del concetto stesso di pittura e inventa la Machine à Effilocher (Sfilacciatrice) che "distrugge" i suoi stessi quadri, anticipando le trovate contemporanee dell'inglese Banksy. Fa una tela dipinta senza cornice da cui scende un filo a penzoloni che tirato disfa la tela stessa. Come la Penelope omerica. Ciò per dire che la pittura contiene in sé la sua decadenza. Ed eccolo riflettere sulla caducità della vita, della carne, delle cose, e seguendo il dettame della sua generazione lancia un manifesto. Il Manifesto dell'Effimero! L'effimero, il poco durevole, il non consustanziato, l'inutile esistenziale, lo fanno approdare all'uso degli ortaggi, dapprima messi dentro alla pittura come il Mangiatore di Fagioli o i ritratti di verdure di Arcimboldo per poi fermarsi sulle patate, Les pommes de terre. O Papas come lui a volte le nomina. Queste gli servono per formare la sua biblioteca universale dei grandi uomini. Una serie di personaggi storici come Cesare, Napoleone, Stalin o Hitler i quali si trovano ritratti in maniera fedele per, poi, avere il loro corrispondente ritratto in patata, la quale è consunta e attorcigliata attorno alla propria pelle nel rifarne le smorfie colorate. Un chiaro riflesso delle mummie della Cripta dei Cappuccini di Palermo, città che BP. frequenterà per decenni. Il resto è la storia delle presenze collegate a questa sua nuova concezione dell'arte che trova un sostenitore nello scrittore Premio Goncourt: Pascal Quignard, suo amico e sodale artistico. Bellissimo il suo poema Natura de Natura ispirato alle "nature" fatte di patate tradotte in genitali femminili dal Nostro. Di Natura de Natura è prevista una grande mostra in Marina di Ravenna da Franco Bertaccini, suo gallerista e amico.


    ESERCIZI DI SCRITTURA GESTUALE

    Vi è un grado zero della scrittura? E questa può collimare con l’assenza di pensiero per tramutarsi in puro gesto zen, o segno mistico più che misterico? Per forza le cose debbono avere un senso dato che siamo al mondo per morire? Ecco vorrei lasciare una “bava” come quella della chiocciola. Una bava incerta, tenue, inutile, ma che brilla alla luna. Così come il pesce apre la bocca per non proferir alcun verbo e Dio si rivelò pura voce dentro un gesto potente che era il cespuglio in fiamme. Quindi le due cose, pensiero e segno, non sono correlate. Esse sono indipendenti: il gesto pittorico è come la danza. O come lo spadaccino che disegna l’aria e questa fischia come vento, così il pittore gesticola davanti al foglio bianco ed i segni cadono, s’innervano uno ad uno, o a grappoli, dentro il foglio bianco. Ferite della mente sulla carne. Gesti infiniti ed aritmici che segnano una presenza fantasmatica sul bianco, ma che potrebbero essere fatti di soffio. Ineffabile gestualità dell’anima senza bisogno di significare, perché muto esercizio, fatto al fine di svuotare il pensiero, come una ginnastica yoga. Tant’è che nella pittura cinese nel medioevo si insegnava il “colpo d’ascia” che era un tratteggio finissimo a colpi di pennello sulla carta. E questo per anni. Poi si passava al “colpo di riso” fatto di puntini di china sul foglio. Alla fine questi “artigiani” della scrittura/pittura lasciavano a terra capolavori di ineffabile visione. Così, ma in maniera più energica, si è mosso Cesare Serafino, e quando abbiamo scelto questi fogli ho invidiato la sua sicumera d’artista perché avrei voluto dipingere io queste carte gestuali; ma credo che se mai l'avessi fatto, l'avrei fatto ad occhi chiusi per essere in maggiore raccoglimento dal caos dell’Anima.


    ESERCIZI DI SCRITTURA GESTUALE

    Vi è un grado zero della scrittura? E questa può collimare con l’assenza di pensiero per tramutarsi in puro gesto zen, o segno mistico più che misterico? Per forza le cose debbono avere un senso dato che siamo al mondo per morire? Ecco vorrei lasciare una “bava” come quella della chiocciola. Una bava incerta, tenue, inutile, ma che brilla alla luna. Così come il pesce apre la bocca per non proferir alcun verbo e Dio si rivelò pura voce dentro un gesto potente che era il cespuglio in fiamme. Quindi le due cose, pensiero e segno, non sono correlate. Esse sono indipendenti: il gesto pittorico è come la danza. O come lo spadaccino che disegna l’aria e questa fischia come vento, così il pittore gesticola davanti al foglio bianco ed i segni cadono, s’innervano uno ad uno, o a grappoli, dentro il foglio bianco. Ferite della mente sulla carne. Gesti infiniti ed aritmici che segnano una presenza fantasmatica sul bianco, ma che potrebbero essere fatti di soffio. Ineffabile gestualità dell’anima senza bisogno di significare, perché muto esercizio, fatto al fine di svuotare il pensiero, come una ginnastica yoga. Tant’è che nella pittura cinese nel medioevo si insegnava il “colpo d’ascia” che era un tratteggio finissimo a colpi di pennello sulla carta. E questo per anni. Poi si passava al “colpo di riso” fatto di puntini di china sul foglio. Alla fine questi “artigiani” della scrittura/pittura lasciavano a terra capolavori di ineffabile visione. Così, ma in maniera più energica, si è mosso Cesare Serafino, e quando abbiamo scelto questi fogli ho invidiato la sua sicumera d’artista perché avrei voluto dipingere io queste carte gestuali; ma credo che se mai l'avessi fatto, l'avrei fatto ad occhi chiusi per essere in maggiore raccoglimento dal caos dell’Anima.

    EXERCISES IN GESTURAL WRITING

    Is there such thing as a zero grade of writing? And can it possibly coincide with the absence of thought to then transform itself into a pure Zen-like gesture or a mystical sign rather than a mysterious one? Do things necessarily have to make sense since we are in this world to die? So be it, I would like to leave a little "trail of slime" like snails and slugs do. An ectoplasm that's tenuous, useless, but one which glimmers in the moonlight. Just like the fish opens its mouth without uttering a word, and God reveals himself to be a pure voice within the powerful gesture of the burning bush. Thus these two things, thought and sign, are distinct and they are not interrelated. They are independent: the pictorial gesture is like dance; or, much like the swordsman who draws in the air and makes it whistle like the wind, so the painter gesticulates in front of the white page and lets the signs fall, innervating one by one, or in clusters, upon the white page. These are wounds of the mind upon the flesh. Infinite and arrhythmic gestures that mark a ghostly presence on the whiteness, which could almost be made of breath. Ineffable gestures of the soul without the need to mean anything in particular, because they are mute exercises with the purpose of emptying all thought, like a breathing pose in Yoga. So much so that in Chinese painting of the Middle Ages they used to teach the "ax stroke", which was a very fine line of brush strokes on paper. This was taught for years before moving on to the "rice burst" made of tiny dots of ink. Eventually these "artisans" of writing / painting left us with masterpieces of ineffable vision. And so moved Cesare Serafino, but even more energetically; and when we chose these works on paper I envied his artist's confidence because I myself would have liked to paint these gestural pieces. I believe however that if I were to do such works, I would have done so with my eyes closed, in order to better convene, as well as convey, the chaos of the Soul.

    translated by Alex Sera


    IO E L’ARIA, di Mario Ceroli, anno 1969.

    L’intuizione artistica, quando è illuminante, supera i confini della mente e quelli umani per travalicare il circolo tautologico della storia. Così per l’opera di Mario Ceroli: “Io e l’Aria” del 1969 che, se di primo acchito può sembrare appartenere al Pop Italiano, in effetti è più legata alla simbologia alchemica cara a Duchamp. Il pronome personale Io è il più incerto dei riferimenti in quanto appartiene alla schiera dei simboli maggiormente indagati sia da Freud che da Jung sul piano del conscio e dell’inconscio. Tale simbologia va studiata pure per la finestra che è foro aperto sul vuoto con un suo “dentro” oppure un suo “fuori”, tanto da corrispondere all’intro o extravertito di memoria junghiana. Ma è soprattutto l’aria che ha funzione di mater, cioè che fa da placenta all’Io, che ne raccoglie l’intima essenza nel pneuma (respiro), tanto da farne il suo onphalos (ombelico/finestra). Ed è in questa fusione fra Io e Aria che si sviluppa la congiunzione alchemica che unisce i due termini così da fonderli in un’unica opera dallo scatto universale. L’apertura sull’aria dove si affaccia un Io, ciò crea un universo mondo che trasforma un fatto fisico in un atto spirituale in cui l’umano è costretto a riconoscere la propria spiritualità.


    FUMO, di Adelya Zyabbarova

    Uno può avere un focolare ardente nell'anima e tuttavia nessuno viene mai a sedervisi accanto. I passanti vedono solo un filo di fumo che si alza dal camino e continuano per la loro strada.“

    (Vincent Van Gogh)

    “L’artista Adelya Zyabbarova con l’esposizione: Fumo presenta allo spettatore una mostra/atmosfera”. Essa è un progetto “esistenziale di ricerca di cui le opere riflettono l’ambiguità della vita presente”. Così recita il comunicato stampa che presentò la mostra della Zyabbarova all’Isola di San Servolo presso il Museo della Follia. Ed è in questa mistura fra video/racconto di una mutazione in stile dottor Jekyll e mister Hyde, che la Zyabbarova si trasforma da carnefice, che scoperchia ai nostri occhi il suo mondo gotico, a vittima che ritorna alla luce sparando (fisicamente) a quel mondo fatto ad arte (quindi di quadri) per ritrovarsi quale artista e donna. Il trapasso, la trasformazione psicologica avviene anche grazie ad una fusione alchemica fra inchiostri alcolici versati su teli plastificati che raccolgono il colore e portano nello scambio chimico, fra carte e inchiostro, il timbro del colore che le imprime e segna. Le volute che nascono dalle mani dell’artista che versa l’inchiostro alcolico controllano solo in parte il processo, cioè fino alla fase dello sversamento, mentre l’espandersi è tutto della materia che corre sulla carta rapprendendosi in volute ondivaganti che evidenziano il chiaroscuro dovuto allo spessore stesso della materia. Ed è in questo volute che sta il segno del cambiamento di cui l’artista parla. In quello spirito alcolico che si trasforma in esperienza chimica coniugata all’esperienza del pensiero che si fa spirituale. Si, direi che l’espandersi e il contrarsi, sia della materia che del pensiero dell’artista si coniuga all’intimità profonda del nostro inconscio che si espande e contrae con la materia dell’universo in senso fisico del termine scientifico. E’ questa la vera scansione del suo operare. Questo suo riflettere, non tanto inconscio, visto che Ella parla di mostra “meditazione” in altre parti del suo comunicato, ci rende partecipi, comunicativi. Il Fumo, se si pensa alla sigaretta, una volta era condivisione. Non si negava tale “piacere” nemmeno al condannato a morte. E questa partecipazione si trova pure nel bel film Smoke (Fumo) di Wayne Wang e co-diretto con lo scrittore, autore del romanzo Smoke, Paul Auster dove la vita di un gruppo di persone si svolge attorno al gestore di una tabaccheria. Non parliamo poi dell’Oppio e del suo consumo nelle fumerie di fine Ottocento. Al più fantasioso “fumisterie” (francesismo) quando si vuol dire che sono discorsi senza senso. Qui il fumo assume pure aspetti mistici legati al sogno, alla droga, e quindi al mutamento psichico della mente e chimico del corpo. Ecco in sintesi le possibilità che preludono alla mostra di Adelya Zyabbarova e che, ambiziosamente, lei tenta di fermare nelle volute del suo fumo fissato dentro riquadri di una carta speciale da fotografia. Ed è in questa sua capacità di rendere altro, di spostare il senso da una materia fisica ad una spirituale, quasi inconsistente, che sta la sua capacità artistica dimostrata. Ella è qui, in questa mostra, artista matura che dà allo spettatore “l’opportunità di abbandonare per qualche tempo il campo informativo per ascoltare se stesso”.


    I GUARDIANI DEL SILENZIO

    in Bruno Lucchi

    La scultura, come tutte le arti contemporanee, rientra nel più vasto pensiero della creatività. E questa è strettamente connessa al contesto sociale in cui opera, e da qui ne sono derivati tutti i mutamenti espressi nel tempo sia come linguaggio che come forma.

    Scriveva il poeta C. Baudelaire nel 1863 ne Il Pittore della vita moderna: “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell'arte; di cui l'altra metà è l'eterno e l'immutabile.” Questo ci fa capire che ci sono due modi di vivere l'arte per l'artista, e cioè quello extravertito: rivolto all'esterno, e quello introvertito: rivolto all'interiorità. Ben espresse questo giudizio un artista statunitense: Paul Thek che visse tra Ponza e gli Stati Uniti. Soleva dire: “quando sono a New York lavoro per la Civiltà, mentre quando sono in Italia, a Ponza, lavoro per l'Eternità”. Queste quindi sono le due corna del problema della scultura. IL primo, a mio avviso, è stato risolto in gran parte dalla scultura americana moderna con l'appiattimento geometrico di Carl Andre, mentre Richard Serra con le sue lamiere ne sonda la leggerezza, e la ludicità gioiosa da equilibrista insensato se la assume Dennis Oppenheim. Probabilmente questo vivere la scultura in tal modo è dovuto al fatto che negli USA vi è una Natura magnifica: grandi deserti, il gran Canyon, grandi laghi, insomma un paesaggio che era apparso perfino ai primi coloni come un disegno di Dio in terra, pertanto replicarlo in scultura significava sminuirne la Spiritualità intrinseca.

    In Europa la storia mitologica è sparsa in diversi riti: primitivi e naturali come quelli celtici, oppure raffinati e psicologicamente introspettivi come quelli greci e romani. Comunque tutti questi riti avevano una funzione religiosa, o civile, nel senso più astratto dello Stato quale istituzione alta. Il Cristianesimo ha poi totemizzato tutto il concetto ascensionale della spiritualità con simboli come la Croce e le Chiese con i loro campanili; ma anche i Dolmen hanno una ascesa funzionale alla spiritualità naturalistica. Per cui un insieme di “regole” si sono adattate al linguaggio formale dello Spirito e si sono associate alla nostra mente creatrice. Di fatto, da noi, scultori come Mauro Staccioli ed Eliseo Mattiacci, rappresentanti più attuali della nostra scultura italica, sembrano rincorrere più un'idea cosmica, legata ad una fissità metafisica che ad un concetto naturalistico. Ed è in questo ambito metafisico che si muove la scultura di Bruno Lucchi. Egli, vivendo in montagna, sente il fascino totemico e spirituale che questa riversa sugli uomini. Il totemismo della montagna piantata a terra e innalzata verso il cielo sembra cercare un confronto con l'uomo. Sembra attendere dall'uomo quel rispetto di cui molti scalatori come Reinhold Messner e Walter Bonatti parlano. E questo rispetto si forma dentro l'uomo e ne trasforma la psicologia e la vena creatrice. Poteva sottrarvisi il Lucchi? La junghiana visione interiore va extrapolata. Ed ecco i suoi totem di argilla ergersi verso il cielo. Guardiani muti ed immoti a protezione di qualsivoglia pensiero puro. Essi spezzano il vento; essi si specchiano nelle nuvole e nel cielo. Essi sono a guardia del Silenzio della Natura in cui sono immersi. Silenzio originario e naturale rotto solo dal rumore/suono dell'uomo che del silenzio ne fa una pausa artificiale. Essi, Golem d'argilla che segna un simbolo di transito verso un altrove. Certo Bruno Lucchi è anche autore di figure dallo sguardo fisso e cappelli al vento, segno di donne libere sfidanti come amazzoni il genere umano. E' pure artista complesso nei confronti della memoria in rapporto a guerra e poesia, così nella mostra sulle Lettere ad Ungaretti. Ma soprattutto va letto in questa dimensione spirituale della “montagna” intesa come luogo ascensionale dell'interiorità verso l'alto: Dio. E verso il Silenzio: luogo interiore dell'anima. Vuoto creativo primigenio. In montagna l'uomo ha incontrato Dio sin dalle origini: Mosè si rifugia nel suo seno (montagna) e lì Dio scolpisce le Tavole dei 10 Comandamenti: Dio non parla, incide nel silenzio come un semplice scultore. Il suo primo capolavoro, restando alla Bibbia, lo aveva già fatto con Adamo ed Eva. Ma è nel silenzioso incontro fra i due nel monte Sinai che nasce la scultura; la parola diventa superflua e il segno lascia la traccia nel marmo, nei fiumi, nel vento, nella luce, insomma nella terra e nell'Universo. Lo scultore vero usa questi strumenti, pur nelle diverse coniugazioni, in funzione di quella prima scintilla.


    CROMO SINFONIE A QUATTRO MANI

    Un teatrino fra le parti? Una sfida surrealista sul Cadavre Exquis con tutte le implicazioni psicologico esistenziali dell’anima? Tutto potrebbe essere e pure questo in parte risponde a verità. Ma l’arte solitamente procede per vie “oscure” e ricolme di sorprese. Ed ecco venire in soccorso alla memoria la pittura rupestre, la grotta di Altamira, e quella di Lascaux nei Pirenei. Là, al buio di una luce tremula, un uomo rincorre le sue ombre e le sue paure disegnandone sulla parete i sogni sublimanti. E così Cesare Serafino riprende la sua gestualità materica e la sottomette alla torsione dell’acqua e della memoria stessa dell’acqua. E queste tracce si allargano e si restringono, secondo la densità o fluidità del colore. Il grumo, le escrescenze, come la piattezza, segnano il foglio, ma sono ricordi, rimandi poetico artistici ed è allora che il Nostro mette la sua firma: l’impronta della propria mano. Un brivido lo percorre mentre la luce nella caverna trema. Egli si sente realizzato. Ma spostato il campo altrove, ecco insediarsi un altro umano nello stesso luogo. Costui trova e rimane entusiasta della precedente decorazione, ma non la sente come sua. Egli ha altri bisogni, altre qualità e intuizioni sui suoi sogni e sui suoi arcani. Eccolo allora riprendere quella pittura come base di una sua costellazione e, lasciandosi suggestionare dai motivi decorativi e dai colori, egli procede lentamente in un riesame che riqualifica, rafforza, e muta la precedente opera. Ne arricchisce la tensione e ne riabilita il desiderio lirico. Sì, la tecnica è un po’ quella surrealista del frottage, l’uso di tele o carte sporche che lasciano macchie, su cui l’inconscio artistico opera sopra. Così Gillo Dorfles ha ripreso l’operato di Serafino e su quella musica coloristica ne riscrive la sinfonia cromatica a quattro mani dando a tutto un altro senso dell’universo sensoriale per una nuova visione lirica.



    LA PITTURA INGLESE VERSO LA MODERNITA’

    Da Canaletto (Hogart, Fussli, Wilson, Wright, Derby, Reynolds, Gainsboroug, Constable) a Turner

    A Palazzo Sciarra a Roma

    Divenuta nel corso del Settecento una vera e propria potenza internazionale, protagonista della Rivoluzione Industriale e dell’egemonia delle rotte marine, l’Inghilterra si pose per la prima volta il problema della nascita di una propria scuola artistica. Lo sviluppo economico di cui fu protagonista la Gran Bretagna, permetterà la nascita di un vero e proprio mondo nuovo di figure professionali, industriali e mercanti, scienziati e filosofi, che troveranno nelle arti visive un significativo supporto all’affermazione del nuovo status, divenendo così mecenati di questi maestri che nell’arco del secolo contribuiranno alla definizione di una scuola nazionale. All’inizio fu il gusto italiano ad essere preminente. Il vedutismo del Canaletto ebbe un tale successo, sui partecipanti al Gran Tour italiano, che lo stesso pittore veneziano si spostò a Londra e fece la sua fortuna per quasi nove anni. Accanto a lui sorsero diversi autori inglesi vedutisti. Il paesaggio era relativamente giovane come soggetto. Si vedeva sempre all’interno di altri quadri e figure, ma mai solo quale soggetto unico. Cominciò in Olanda, sembra con la veduta di Delft di Vermeer, l’avventura del paesaggismo, di cui il Guardi, il Ricci, lo Zeiss e il Canaletto, nella Venezia del Settecento, con i loro Capricci & Vedute, fecero la loro fortuna e diffusero all’estero il “vedutismo”, poi seguiti dagli artisti locali. Un altro elemento importante nello sviluppo della pittura di paesaggio, dovuto proprio alla rivoluzione industriale, fu la scoperta tecnica dell’acquarello concepito in pastiglie dentro una scatola che poteva essere trasportata facilmente e con un po’ d’acqua si potevano stendere le linee e le figure di un chiaro scuro dentro un foglio di carta, altresì facile da usare e trasportare. Questo permise un’estensione generale dell’uso da parte di quasi tutti gli artisti che potevano schizzare le loro vedute, salvo poi riprenderle a olio in studio. Anche il realizzo della Conversation Piece (quadro di conversazione) ebbe enorme diffusione e fu propedeutico alla realizzazione del paesaggio nella conciliazione fra i due generi: vedutismo paesaggistico assieme all’umano. Al pari del ritratto, anche la pittura di paesaggio rifletteva quindi le aspirazioni politiche e pubbliche della committenza, ritraendo castelli o case padronali che si ergevano nel mezzo delle varie tenute private. A contribuire alla fortuna del genere furono anche gli scritti di Alexander Pope e James Thomson che, attraverso liriche ispirate al modello delle georgiche di Virgilio, riuscirono a dare vita ad una visione poetica della campagna inglese come di una moderna Arcadia, custode di bellezza ed armonia. Interessante, nel mezzo delle sette sezioni della mostra, vi è quella dedicata al “moralismo” shakespeariano: una nazione che stava avendo un successo mondiale, per l’epoca in cui Londra faceva un milione di abitanti, come Roma nei secoli imperiali, aveva bisogno di un collante ideale, che sorreggesse questo concetto di nazione e che si legasse al popolo che la formava. A questo pensarono da una parte le incisioni di Hogarth, come il ciclo Marriage à-la-mode o l’Election Day, in cui l’artista documenta con occhio critico e disincantato scene contemporanee di vita sociale e politica, a volte in maniera cruda ed oscena proprio per sferzare con la propria penna il malcostume imperante; dall’altra Fussli che, con il suo cantare le opere del grande drammaturgo, ne illustra per impressione e grandezza, in due stupende opere: il Sogno di una notte di mezza estate. Shakespeare diviene, per questi artisti, una fucina di valori da indicare al popolo della nascente nazione. Da qui in poi la pittura inglese si rifà ai modelli classici adottati in tutta Europa, in piedi o seduti di tre quarti o di fronte, oppure presi dal basso, alla Mantegna, per dare regalità e importanza ai soggetti dipinti. Ma nel contempo due grandi temperamenti si confrontano sulla pittura di paesaggio che, quasi in un duello fronte a fronte, da parete a parete si guardano, e sono John Constable, figlio di una modesta famiglia, mai uscito dal suo Paese e dalla sua Dedham Vale. E William Turner, che invece viaggerà per l’Europa e sarà in più riprese a Venezia, dove si inebrierà della sua luce. Il romanticismo tedesco di D. Caspar Friedrich pone la figura nell’ambito di una natura perversa e indòmita, tanto da farla sentire un nano nell’Universo. Qui l’amore per la Natura naturale trasfonde all’interno dei quadri, dove la luce è graduata, tenera e diversificata in Constable, mentre diviene bianca ed effimera in Turner, tanto da farlo ritenere a posteriori un pre-impressionista. Vi sono due vedute di Tivoli all’interno della mostra ed entrambe riprese dal medesimo punto di vista, ma mentre in Derby essa mantiene ancora contatto con il paesaggio, in Turner la stessa visione si sfalda e sfoca nella luce abbagliante che la rende solo “messaggio colorato” sulla tela. La grandiosità di Turner, ricordiamolo, lo lega alla sua passione per l’acquarello, che gli permette, attraverso il bianco del fondo, di disfare la luce nel colore e con questa costruire l’opera.

    Tutto ciò, a cura di Carolina Brook e di Walter Curzi, si può vedere fino al 20 di Luglio a Palazzo Sciarra, angolo via Del Corso, Roma.



    POP ART E DINTORNI A TORINO

    Una Pop Art (Arte Popolare) italiana effettiva non esiste come corrente o movimento artistico nazionale, mentre quella americana, che vincerà nel 1964 la Biennale di Venezia con Robert Rauschenberg, era strutturata sia come teoria che come mercato, grazie anche al gallerista Leo Castelli. Vi sarà invece una risposta europea organizzata nel Nouveau Realisme diretto e coordinato da Pierre Restany a cui farà testo, fra gli italiani, il bravo Mimmo Rotella. Per il resto della penisola, come ben dice Francesco Poli, vi è un fiorire di personalità artistiche che operano influenzate da queste due grandi direttrici internazionali. A Roma: Ceroli, Tano Festa, Angeli, Schifano, Gnoli. A Bologna: Concetto Pozzati. A Napoli: Lucio Del Pezzo. Così, a memoria! Torino fa caso a sé per la qualità dell’ambiente in cui operano questi cinque artisti qui invitati. Torino negli anni Sessanta “ quando l’arte non era ancora povera”(*) ha un humus artistico di levatura: vi operano architetti di rilievo come Carlo Mollino e Paolo Soleri che a Vietri lascerà (unico progetto italiano) la fabbrica di ceramiche Solimene ed emigrerà negli Stati Uniti; galleristi come la Cristian Stein, Luciano Pistoi e Gian Enzo Sperone. Assieme ai qui presenti: Gilardi, Pistoletto, Mondino, Nespolo e Boetti, vi si trovano ad operare in quegli anni Sessanta, sempre a Torino, i Mario Merz, Carol Rama, Pinot Gallizio (il re degli zingari). Vi si agitano, in quel di Alba fra le colline, i fantasmi della quarta internazionale della Bauhaus Immaginista (MIBI), appunto con il Pinot Gallizio, Asger Jorn il vichingo, Constant Nieuwenhuys, l’olandese Karel Appel ed Enrico Baj, altro autore pop surrealista. Luigi Carluccio, critico, che arriverà anni più tardi alla guida della Biennale di Venezia, è lì che vigila. Da questo quadro emerge una Torino centrale per l’arte italiana, e non solo, oggi sappiamo che, come molte correnti di pensiero, l’Arte non si può confinare dentro un destino preciso fatto di categorie, in quanto essa si dirama in propaggini che si spostano da un riferimento all’altro, per cui troveremo gli stessi autori in seguito a formare un altro raggruppamento artistico, molto torinese per adepti, ma con a testa un giovane critico genovese, Germano Celant , che ipotecherà l’arte degli anni Settanta lanciando un grande movimento come quello dell’Arte Povera dove, sempre a Torino, nel Dicembre del 1968, si terrà la seconda mostra di lancio nazionale. E questa, come si suol dire, è tutta un’altra storia.


    UNA GIOIOSA MACCHINA DA GUERRA

    di Boris Brollo

    « …. Questo toro è un toro e questo cavallo è un cavallo …. Se voi date un significato a certe cose nel mio dipinto questo può essere molto vero, ma non è mia l'idea di dargli questo significato. Anch'io ho realizzato le idee e le conclusioni cui voi siete giunti, ma istintivamente, inconsciamente. Io ho realizzato un dipinto per il dipinto. Io dipingo le cose per quello che sono. »

    ( Pablo Picasso)

    Si potrebbe partire dall’elemento isolato della pittura di Pino Chimenti per poi porla, la sua pittura, come spesso è stato fatto nel contesto della storia dell’arte contemporanea per trovarne più o meno le ascendenze o le discendenze. Preferisco invece partire dalla biografia di Pino Chimenti che ci dà degli indizi non indifferenti alla descrizione della sua opera. E qui scopriamo che tutto il nucleo del suo lavoro, che avrà poi definizione formale, nasce fra il 1975 e il 1985.

    Le sue opere si distinguono subito per la particolare atmosfera fiabesca e per la sottile ironia..dei suoi personaggi fantastici vagamente antropomorfi (ciclo Fabulae Mitopoietiche). E gli anni Ottanta rappresentano un passaggio fondamentale per Chimenti.” Egli, allora, segue i corsi di Gillo Dorfles ad Anacapri e lì conosce e frequenta: Toti Scialoia, Enrico Baj e Joe Tilson. Pur diversi fra loro come stile formale questi artisti si distinguono per la “visionarietà” che li accomuna. E’ chiaro che il primo Chimenti, quello che va dal ‘85 all’86, ricorda per segno e forma alcune opere giovanili dello stesso Dorfles. Ma, dopo, il suo operare si complica di figure rese sempre in maniera fiabesca, ma più rigide, meno morbide di quelle dell’inizio. Inoltre la tela si riempie di figure più piccole che nella simbologia formale sono meno importanti di quelle centrali le quali rimandano a guerrieri sempre in lotta. Un po’ come avviene nella scena della pittura egizia dove le figure lontane sono più piccole e quelle vicine più grandi pur tuttavia si trovano nello stesso affresco piattamente davanti a noi. Pino Chimenti usa pure lui l’ artifizio del frazionamento. Tant’è che il campo della tela si divide sempre in due. La forma qualsiasi essa sia non è più centrale e padrona del campo dove vi nuotava o si girava all’inizio del suo operato. Qui il campo si divide in due fazioni pittoriche. E questa opposizione è lo stato di evidente guerra guerreggiata fra le due fazioni pittoriche inserite nella tela. A soccorrere questa mia intuizione vi sono i titoli che egli dà alle sue opere e che assumono in sé termini di guerra o che sembrano far parte di un manuale per guerrieri come le parole: Ammiraglio, Memoria guerriera, Mimetismo, Neo-Condottiero, Guerrieri Simbiotici , Cyborg, Sentinelle. Che voglia dirci qualcosa tutto ciò, o sono spie di un quadro indiziario più remoto e nascosto? Di colpo un’illuminazione; mi sono ricordato che negli anni Sessanta avevo per le mani una rivista di allora: Il Contemporaneo che pubblicava spesso disegni di artisti fra cui Picasso . Cercata e trovata! Ed eccoti in copertina un uomo che lotta contro una specie di macchina da guerra fra l’umanoide e un carro armato. Insomma la lotta eterna dell’uomo nudo munito della sua intelligenza contro una gioiosa macchina da guerra.

    Oggi potrebbe sembrare negativo avvicinare un pittore a Picasso. Ma per il caso di Pino Chimenti non è una questione di forma o di segno, ma di concetto. Egli traduce l’opposizione di Picasso al regime franchista in una opposizione tout court. Questa è la radice inconscia della forma pittorica del Chimenti , e di tutta la sua pittura che egli spende in questa sua lotta interiore con la macchina dei desideri, delle sue follie e delle sue angosce. Ecco i ritmi guerreschi imposti dalla rigidità delle forme. Non più liberi nello spazio, ma chiusi dentro scudi e lance sempre in opposizione. Questa sua è una saga vicina alla grande saga vasaria della Magna Grecia. Egli è un moderno maestro del racconto di questa terra calabra appartenuta ad una grande storia dove ancora le radici trasudano di questo passato glorioso. La felicità di questo racconto diviene la gioiosa macchina da guerra di questi spiritelli ironici relegati a ruoli letterari sempre più futurologi da Cyborgs. Pure qui egli sviluppa un senso del fantasticare che benché affondi le radici nel passato l’insieme guarda al futuro. Futuro che non è dipingere marziani con teste grosse, ma riprendere il concetto dell’eterna lotta umana oggi rimandata al virtuale, al computer, alle bombe intelligenti nel mentre Chimenti segna un punto ancora umano alla lotta a corpo a corpo. E tutto questo mondo favolistico è pieno di energie nascoste e terribili, di desideri e pulsioni violente che trovano intreccio e soluzione dentro un magma di colori e di guerrieri simbiotici dentro una tela. La sua pittura è una sublimazione della vita come ai vecchi tempi: racconto di vita, come nella più alta poesia omerica. Il suo è un ritorno dal futuro verso le radici della storia cantata dai poeti.


    TEORIA e TEORIE sul PREMIO FURLA

    Cinque critici italiani indicano cinque critici stranieri e assieme invitano un gruppo di artisti italiani , o che operano in Italia, al di là dell’età e della tecnica artistica seguita. Fra questi verrà scelto un vincitore, o vincitrice, del Premio grazie ad una giuria internazionale cha dà garanzia di imparzialità. Tutto ciò ha dimostrato nel tempo grande professionalità e intelligenza di scelta. Quest’anno ha vinto il veneto Alberto Tadiello con il progetto d’opera SHIFT, 2008. E un curriculum davvero invidiabile nel panorama italiano. Auguri.

    All’Artefiera di Bologna erano tutti esposti i cinque finalisti con i loro progetti a a parete e con mia sorpresa ho constato che erano solo progetti e quindi l’idea artistica era solo accennata accanto alla forte presenza del testo esplicativo, teorico. Questo il dato che mi ha colpito. Leggendo, poi il catalogo del Premio Furla, ho capito che si sono premiati i progetti e che l’opera verrà realizzata in seguito e si potrà vederla alla Querini Stampaglia in occasione della Biennale Veneziana.

    Questa idea della teoria dentro l’arte non è nuova, anzi, la sorpresa qui è che il progetto è diventato l’opera inglobando in sé la stessa teoria esplicativa. E se mentre prima la teoria era una teoria giustificativa dell’opera , essa ora appartiene all’opera stessa. Ovviamente già il pensiero s’incarna nell’opera plasticamente e teoricamente, per tanto pure chi s’interessa d’arte e ne scrive, o ne parla, è di per sé artista. Tant’è che uno degli interrogativi che si poneva un critico all’interno del Premio “ è il capire come si articoli e si definisca la relazione tra artista e curatore, soprattutto in relazione al farsi dell’opera.” Si potrebbe dire che uno equivale l’altro nel senso che sono interscambi ali nei ruoli vista la modalità strutturale dell’opera contemporanea. La loro funzionalità di scelta : artista o curatore, o critico, è solo legata al ruolo che si è scelto nel l’ambito del sociale, non della funzione operativa.

    Per i più curiosi segnalo Tom Wolfe in “Come Ottenere il Successo in Arte”, editore Allemandi, 1987. Là dove scrive: In un batter d’occhio quelle teorie sulla superficie piatta, dell’astrattezza, della pura forma e del puro colore, della pennellata espressiva (azione) non furono più delle semplici teorie, ma degli assiomi, delle parti del dato, quindi fondamentali …. Ignorarle significava non avere la Parola. La parola, proprio così. Si stava verificando una trasformazione dell’ intima essenza del mestiere del pittore …… Gli stessi artisti non sembravano rendersi minimamente conto di quanta importanza stesse assumendo la teoria. Mi domando se i Teorici stessi se ne rendessero conto. Tutti artisti e teorici dell’arte, parlavano come se tendessero consapevolmente a creare un’arte immediata, chiara, spoglia,del peso tremendo della storia, un’arte pienamente manifesta, onesta, onesta come il piano del dipinto integro e piatto. L’estetica serve agli artisti quanto l’ornitologia agli uccelli” disse Barnett Newman in una battuta molto citata. Eppure lo stesso Newman fu fra i teorici dell’Ottava Strada e la sua opera lo stava a dimostrare ….. Non v’era più scampo dalla teoria. Pollock aveva un bel dire:”Cezanne non creò teoria. Le teorie vengono dopo i fatti”. Ma con il critico Greenberg ( rimanendo al giudizio di Wolfe) la teoria, da allora in poi, ebbe la sua punta massima e dentro e fuori dell’opera.