Lo spazio dipinto come rilievo speculare delle proprie pulsioni a vivere l’esistenza secondo i ritmi inpressi dalla relazione con la natura, il paesaggio, le cose e l’uomo: questo è una tensione primaria nella poetica di Nilo Cabai. Artista friulano di sicura rinomanza in Italia e all’estero (dove ha esposto sopratutto in Austria, Svizzera e Francia) presenta in questa circostanza un saggio esemplare della sua attività che si è protratta dal 1950 ad oggi senza interruzioni
La sua vena creativa ha avuto momenti di entusiastiche accelerazioni in una determinata direzione, attimi di arretramento impiegati a riflettere sulle soluzioni formali a lui più consone per uscire da qualche fase di crisi; ha passato anche periodi di grande apprensione per la propria salute che ha saputo sedimentare in un’espressione pittorica tesa non a rappresentare, ma ad evocare per allusione, oppure capace di rimandare a significati ulteriori dentro una gamma di possibilità nella quale il fruitore attento può captare segnali molteplici, utili a innescare processi di approfondimento e di riflessione.
L’ispirazione di Nilo Cabai sta tutta nella realtà a lui vicina: il paesaggio della campagna friulana, i paesi attraversati dalle strade statali che gli percorrono come arterie pulsanti, le architetture passate che rispondono più alle esigenze funzionali (addossate le une alle altre) che non a quelle estetiche, il mare con i suoi tesori di colori e presenze, il passato che vive nella contemporaneità attraverso i segni di un muro o di un agglomerato urbano. Nei suoi quadri i giochi di piani si sovrappongono in parallelo, le aree velate si intersecano, i volumi sfuggono alla percezione immediata di profondità fisica per assumere le connotazioni di evidenze dell’anima, mosse da infinite vibrazioni di superfice, come è possibile notare fissando la stesura, animata da miriadi di segni in rilievo, tracce di un passaggio misterioso. La tela è cadenzata da una sorta di quinte teatrali in successione che rinviano a essenziali contorni di realtà abitative, nervature di paesaggi colti sulla linea di un orrizonte che diviene discrimine tra la figura e la sua astrazione perché in questo artista sono concomitanti le due tensioni e producono a volte una sottolineatura dell’una o dell’altra modalità espressiva in un brulicare di proposte; esse tengono conto del valore tradizionale dell’atto pittorico, portato dalla tavolozza alla tela con la mediazione di una mente che organizza strategicamente l’evento prima di tradurlo sul piano della visibilità, quindi prima di trasformarlo in compiuta testimonianza d’arte.
C’è in Nilo Cabai l’inclinazione a recuperare a volte i colori del cielo, che sulla tela screziano la loro tessitura, oppure le terre, con quel magnifico rosso-mattone o meglio ancora quel bordeaux ossidato in una stesura monotonica che ha tuttavia sottopelle una varietà di screziature appena percettibili . E’ in ogni caso un canto melodioso all’esistente, in cui va a focalizzare dentro la lente amplificante della poesia i tratti di una piena adesione ai suoi temi preferiti: le architetture spontanee, le facciate, i muri, l’archeologia dei sentimenti impressa nei reperti di un tempo andato, eletti a protagonisti del presente. Sicuramente si tratta di una pittura che contiene l’esplicita promessa di altri imprevedibili sviluppi evolutivi, con quel margine di sorpresa che è mistero e magia di un arte senza condizionamente. Enzo Santese
NILO CABAI: L’APOLOGIA DELLA RAZIONALITA’
di Leo Strozzieri
Una pittura sottovoce, eppure limpida, quella di Nilo Cabai. Limpida nei colori, nei suoni, nei silenzi, nel respiro, nelle aperture ad un ricorrente ossimoro che proponga di volta in volta finezze integrali per un verso e forza tellurica dall’altro, dinamismo futurista e quiescenza monastica, partiture cromatiche dirompenti in coabitazione con la silente rarefazione della materia. E come non parlare anche della sintesi tra due culture, quella solare mediterranea e quella severa mitteleuropea, ben visibile e perfettamente riuscita nell’intero arco della sua ricerca?
Queste fusioni sono la sapiente epifania di un artista che riversa nella sua opera la ricchezza dell’io che sappiamo essere in preda, come del resto il mondo che ci circonda, della mutevolezza e della complessità bisognosa di un principio ordinatore.
Va rilevato il legame culturale profondo che la ricerca del maestro friulano (Cabai è nato a Udine nel 1931) ha con il territorio friulano ed in genere con quello del nord-est italiano: basti citare i fratelli Basaldella, in particolare Afro, ed ancora Giorgio Celiberti, per non parlare del grande Emilio Vedova. Ma al materismo orgiastico e allo strapotere del caos, nonché all’anarchia de segno che regnavano sovrani nell’Art Autre, Cabai ha inteso dare un imprinting umanistico. Proprio per questo a mio avviso, alla sua lunghissima vicenda creativa che ebbe un’accelerazione agli inizi degli anni Cinquanta, che, sia detto tra parentesi, non si esaurisce con l’esperienza astratta, la critica dovrà attribuire una valenza storica del momento che risulta fondata sull’aureo patrimonio umanistico che fa riferimento a valori con cui si misura l’autenticità dell’essere.
Mi si conceda una puntuale ed efficace analogia storica: come nell’ambiente romano venne a giusto titolo storicizzato dalla critica, in primis dell’indimenticato Giulio Carlo Argan, il Gruppo Uno risalente ai primi anni Sessanta, gruppo che significò il superamento dell’azzeramento linguistico informale (il numero uno viene dopo lo zero), così sarà doveroso ritenere storica la figura di Cabai per le soluzioni positive contenute vitalmente nella sua ricerca, che costituisce un esempio di continuità con la razionalità a fondamento dell’arte classica e rinascimentale di cui si sente impegnato a ricostruire lo splendore, nonostante l’impiego di linguaggi desunti dalla contemporaneità quale l’astrattismo geometrico.
Questa, pertanto, l’etichetta che potremmo virtualmente apporre in calce alla sua opera omnia : apologia della ragione.
Ma cerchiamo di entrare più a fondo nel circuito operativo dalla consistente positività antica, classica direi, eppure quanto mai urgente in una società deumanizzata che avrebbe estremo bisogno che l’arte tornasse al suo ruolo di grande nutrimento dello spirito. Ecco le risorse basiche della pittura del grande maestro friulano alle quali il fruitore delle sue opere dovrebbe prestare massima considerazione: come gia detto, la razionalità, e poi evidentemente lo specifico formale ed estetico, il tessuto compositivo, lo spazio costruito, la struttura linguistica, gli equilibri, la dialettica interna, il continuun gestuale e sue deviazioni o cesure, le stratificazioni, l’ars combinatoria libera di tracciare itinerari anche imprevedibili.
La disciplina che per antonomasia verticalizza la razionalità è la geometria dal nostro, elaborata in modo tale, però, che venga estirpata la caducità formale del rigore assoluto. Una geometria, pertanto, aggrappata alla mutevolezza dei moti interiori, con sentieri non preordinati, fatta di tessere irregolari ché l’homo sapiens assembla in base ad una elaborazione mentale che tenga conto di risonanze naturalistiche e talora cosmiche. Raramente è dato riscontrare nei suoi lavori forme geometriche pure e bidimensionali, quali quadrati, rettangoli, triangoli, rombi e così via, come, ad esempio, avveniva in Mondrian; al contrario si propugnano variegate lamine vibranti e vibratili che talora esibiscono densità plastiche mentre entrano tra loro in rapporto interattivo con frequenti rimandi alla figurazione. Ecco, nella non-forma, come per incanto, un’assorta e serena allusione a un corpus iconico atto a ripristinare un legame empatico con il reale mai caduto nell’oblio ma inamovibile dalla sua memoria. Alberi, uccelli, architetture urbane, paesaggi marini, pinete del litorale carsico, pareti di edifici, cattedrali, nature morte: tutta una fioritura qua e là di impronte, di ombre figurali corrose nella componente veristica ma dall’esclamato splendore lirico. L’arte comincia dove finisce il vero, ebbe a sentenziare un grande scultore informale del ‘900, e Cabai indubbiamente costituisce in tal senso una delle massime espressioni di tale rarefazione iconica. A questo coopera altresì e grandemente il cromatismo fatto di granulato e pullulante fremito vitale. Quanto suggestivi sono i suoi verdi, i suoi azzurri, i grigi, i neri vellutati, gli ocra, che talora si spingono verso la purezza dei gialli comunque sottoposti a velature, e quei marroni quaresimali come fossero mutuati dalle tonache dei francescani in grado di fornire sensazioni di silenzi e di altissima spiritualità! All’artista compete il compito, ogni volta che trae ispirazione dalla natura, di coglierne l’essenza e pertanto di approdare ad un oltre, come ha evidenziato Enzo Santese uno studioso che a più riprese si è interessato alla sua ricerca, in suo lucido saggio critico su Nilo Cabai.
Un colore, il suo, mai chiassoso o elementare a guisa di quello propugnato nella produzione serigrafia pubblicitaria che nulla ha in comune con lo spessore antropologico; colore solido e dinamico che invita anche ad una lettura tattile delle opere le cui superfici, pur ruvide come gente di montagna adusa alle asperità, sono divinamente limpide e pure come acqua sorgiva che dalla medesima montagna scaturisce.
Un’ultima annotazione riguarda il fatto che il nostro artista ama dipingere per cicli, dando così una testimonianza di serietà ermeneutica sugli argomenti affrontati che necessitano di sempre più approfondite indagini. Abbiamo, ad esempio, per citarne solo alcuni, quelli dedicati alle pinete, gli interni medioevali, ai cantieri, alle vele e ai muri, quest’ultimo particolarmente suggestivo per la sua valenza ideale. Archetipo di tutte le barriere, il muro vanta una tradizione antichissima di cui parlano a più riprese anche i testi biblici. Ma, per rapportarci ai nostri giorni, il pensiero va al muro di Berlino o al muro del pianto e a quello assurdo progettato da Trump tra Messico e Stati Uniti. Cabai, con questa suggestiva suite di opere, mostra di essere in sintonia con la contemporaneità, aggregando a questi storici riferimenti socio-politici una consistente informazione riguardante il pensiero filosofico sul tema del muro, a cominciare dalla nota opera omonima di Sartre da cui si evince il concetto dell’assurdità della vita. Non è da escludere anche un riferimento al contesto pittorico e grafico del suo conterraneo Giorgio Celiberti, dove abbiamo una documentazione preziosa e tragica allo stesso tempo dei graffiti impressi sui muri di Terezin, città della repubblica ceca, dai ragazzi internati in quel campo di concentramento. Sono come purificati da qualsivoglia grafia i muri del nostro maestro, che spesso vengono sottoposti a fermentazioni coloristiche in rapporto con il calore del focolare domestico. Una catarsi, quindi, delle superfici memorizzate nella pittura del suddetto collega.
Che dire a chiusura di questa breve testimonianza sul nostro artista che, a mio giudizio, ha scritto già pagine determinanti nella storia dell’arte italiana contemporanea? A fronte di una lettura esclusiva in chiave estetica del suo astrattismo, è doveroso evidenziare la dimensione etica della sua opera ove la realtà esterna interagisce con il mondo interiore dell’autore, dando così credibilità anche ai nostri giorni ad una visione umanistica del fare arte.
Pescara gennaio 2018
L’uomo e il pittore
“Non esiste un mistero della vita o del mondo o dell’universo. Tutti noi, in quanto nati dalla vita, facenti parte della vita, sappiamo tutto, come anche l’animale e la pianta. Ma lo sappiamo in profondità. Le difficoltà incominciano quando si tratta di portare il nostro potere organico alla coscienza.”
U. SABA “Scorciatoie e raccontini”
Chi ha conosciuto Nilo Cabai, ma - aggiungiamo noi - anche chi ha avuto il piacere di incontrarlo soltanto per qualche tempo, trattiene per certo di lui - come giustamente è stato scritto (Licio Damiani) - l’immagine di un uomo che “vive intensamente in se stesso” e di sicuro conserva il ricordo di uno sguardo intenso, attentamente rivolto al di dentro, non certo per temperamento altezzoso e superbo, né per spirito di ritrosia, bensì per il bisogno irrefrenabile di sondare la propria anima e per il desiderio di portare alla superficie le più pure emozioni, le memorie, i vissuti che hanno formato la sua vita.
E se ciò vale per ogni artista, è vero anche per Nilo, ché è dall’uomo che nasce il pittore Cabai.
La sua è una pittura intimista, fatta di echi risonanti provenienti dal fondo, dal “flusso della (sua) coscienza”, vale a dire dal magma apparentemente disorganico delle emozioni e dei pensieri, sconfinante fino ai limiti del sogno, da quello “stream of consciousness” teorizzato da Joyce in “Ulisse” (1922), e ripreso da Svevo ne’ “La coscienza di Zeno” (1923), romanzi, questi ultimi, che hanno alimentato più di altri il bagaglio culturale degli artisti della Venezia Giulia e del Friuli.
In quel periodo, in particolare l’impronta intellettuale di una città come Trieste, da sempre attenta alle innovazioni d’Oltralpe, è rimasta impressa largamente nel genoma di tanti giovani e - tra questi - di Nilo Cabai, vissuto in quella città fino al 1942.
La sua pittura è per questo duplice ordine di motivi, ossia per temperamento e per retroterra culturale, portata a tradurre e ad esprimere il gioco sottile delle emozioni, a ripiegare sui vissuti, sui luoghi, sui paesaggi, sulle persone conosciute.
E’ il contrasto che da sempre alimenta la sua Terra “di confine”, il Friuli Venezia Giulia, ad accrescere ulteriormente la sensibilità intimistica di Cabai: da un lato lo ”sguardo” aperto sulla Mitteleuropa, che accende e tiene vivi gli ingegni e che ha fatto di questa regione una terra dove in pittura l’astrattismo e l’informale sono arrivati prima che altrove grazie all’influsso della Secessione viennese, e dall’altro la sua storia di terra contesa, alla continua ricerca di una sua identità.
I quadri di Cabai sono anch’essi perdite e riconquiste: di ricordi, di amicizie e sentimenti, di paesi, di valori e tradizioni.
Per questo non possono essere che astratti, come lo è, al suo scaturire, il flusso del pensiero che li origina e li riporta alla memoria.
Ma la sua astrazione ha il grande pregio di non rimanere mai un freddo gioco d’intelletto, un mero calcolo aritmetico, perché possiede la capacità di alimentarsi al costante calore delle cose, riconoscibili in controluce, familiari all’autore, in grado di entrare in simpatia con l’osservatore che vi vede riflesso anch’egli un passato familiare che vorrebbe far riaffiorare.
Cabai è un uomo profondamente legato alla sua terra, di un legame sanguigno, come lo sono quasi tutti gli uomini d’arte, i pittori, i letterati di queste zone.
Ma egli è anche un uomo che in campo pittorico ha saputo slegarsi dal peso delle tradizioni accademiche per cogliere tra i primi i fermenti artistici provenienti d’Oltralpe, dall’Austria, dalla Svizzera, dalla Yugoslavia, dalla Polonia, stati, questi, dove - grazie alla vincita di una borsa di studio - egli ha cominciato giovanissimo ad esporre ed a tenere mostre personali.
A tutt’oggi Cabai ha all’attivo oltre 500 esposizioni e le sue opere figurano in musei del Friuli Venezia Giulia, dell’Istria nonché in collezioni pubbliche e private di tutta Europa.
Le sue tele sono state recensite su riviste specializzate, italiane ed estere e la sua attività è documentata presso l’Archivio per l’Arte italiana del Novecento a Firenze, “Kunsthistorisches Institut in Florenz”.
Un personale “astrattismo oggettuale”
“... Amai la verità che giace al fondo...” U. SABA, “Amai”
La tela di Cabai è un “muro” rugoso, fatto a quadrati e rettangoli, a forme spigolose, a volte ammorbidite e tondeggianti, distese a formare piani, tagliati da fasce diagonali che si aprono, fino alla creazione di spazialità profonde.
I suoi dipinti ricordano l’arida terra scavata e rimodellata in solchi e costruzioni dall’umana fatica: il suo quadro sapit humanum fino alla radice. Ne può essere diversamente perché egli stesso è un uomo di terra “di terra”, che ama coltivare personalmente - e con cura - l’appezzamento di terreno antistante il suo studio, nella periferia di Udine, zona della città - questa - in cui l’asfalto cede alla campagna.
L’abile intarsio geometrico che caratterizza i suoi dipinti potrebbe di primo acchito rimandare ai lavori degli artisti “informali” degli anni ‘50 e ‘60 (Afro, suo conterraneo, per esempio), ma un’importante differenza li discosta da questi: la presenza dell’oggetto, mai perso di vista, anzi continuamente intuibile in controluce.
L’impronta delle cose fa della pittura di Cabai un’alta espressione di “astrattismo oggettuale”.
Non a caso, Cabai nasce artista figurativo. Sarà la partecipazione ad un’importante rassegna pittorica tenutasi a Vienna nel I958 ad imprimere un segno indelebile alla sua tecnica, sviluppandola all’insegna di un più moderno linguaggio informale.
E’come se gli oggetti, nascosti e gelosamente custoditi nel fondo della sua coscienza, riaffiorassero sulla tela, carichi delle loro sottili ed invisibili emozioni, legate a vissuti particolari, a luoghi, a paesaggi, a persone conosciute.
Cabai, attraverso la sua pittura, interpreta se stesso e lo fa valendosi delle cose e delle persone a lui care, della natura, del paesaggio rurale e cittadino in cui vive.
I suoi scenari, infatti, sono quelli naturali friulani e della Venezia Giulia (le pinete del Carso, il mare triestino limpidissimo, le pianure verdi udinesi), in cui s’intravede l’architettura spontanea di una colonna, il bianco di un’architrave, il disegno di un capitello: borghi rurali riemergono dal verde dei boschi e delle campagne, isole felici in cui sopravvivono tradizioni che il pittore vorrebbe salvare.
Gli oggetti parlano dagli antri naturali: Cabai li ascolta e ricerca nella natura queste “architetture spontanee”, convinta che esista un’intima razionalità che animi il modo vegetale ed al contempo guidi la vita di ogni uomo.
Baudelaire già aveva scritto: “La Nature est un temple où de vivants piliers laissent parfois sortir des confuses paroles; l’homme y passe à travers des foréts de symboles qui l’observent avec des regards familiers...” (Correspondances, da “Les fleurs du mal”).
Si tratta unicamente di mettersi in ascolto e di riuscire a percepire i messaggi discreti che manda la natura, le “corrispondenze” che regolano le basi della vita, non limitandosi mai ad uno sguardo in superficie, perché è “nel fondo” che giace la verità che va cercata.
E’ un dialogo, quello tra il pittore e la natura, che Cabai traduce in maniera del tutto personale, attraverso l’utilizzo di una tavolozza talvolta squillante (rossi accesi, gialli solari, azzurri lucenti, verdi tenui), talvolta cupa (neri lavici, verdi muschiosi, brulli marroni), in sintonia, del resto, con l’eterno ciclo vitale del mondo, che ha una genesi e una fine.
Alberi, campi, case e campanili sono intuibili trasfigurati fra le rugosità del colore, anche se destrutturati e denaturalizzati perché “astratti”, estrapolati dal loro contesto naturale per divenire pensiero e sentimento personale.
Cabai è un pittore che dipinge nel silenzio dell’anima, con i colori spenti o vibranti che gli suggerisce la sua emotività e con la rara capacità di arrivare all’essenziale, sfrondando la tela da distoglienti particolari.
I suoi “periodi” pittorici, in cui predomina una tonalità particolare (il verde, il blu, il rosso e nero, il nero), non sono altro che la testimonianza di questa sua capacità di sintesi.
La tela è sempre di un forte impatto visivo, specie se di grandi dimensioni - formato che egli ama sovente affrontare - ed è di un’essenzialità ammirevole: il quadro resta nudo nella sua verità svelata.
Cabai esprime la tangibilità e la concretezza delle emozioni ricoprendo la superficie della tela di uno spesso strato materico grumoso che egli graffia e stende a spatolate: comprensibile che l’osservatore non sappia resistere alla tentazione di sfiorarla... Egli si avvale sempre dell’utilizzo di impasti “poveri”, quali l’acrilico misto alle terre naturali, e sapientemente dosa i colori, stesi e sovrapposti sempre nel pieno rispetto dei complementari.
E’particolarmente abile nel creare effetti di trasparenza: mai si permette di appiattire i colori, ma sempre riprende i loro “sconfinamenti” verso altre tonalità, in modo da originare innumerevoli velature e tramature di tinte, distese a sfiorarsi ed a congiungersi appena.
E’la velatura - il segreto della realtà nascosta dietro quello che si vede - senza alcun dubbio, l’aspetto più incisivo della sua tela, la progressiva sovrapposizione di un azzurro su un avorio, di un ocra su di un beige, di un blu su un verde muschio.
Cabai è un vero “poeta” della forma e del colore: il suo è un lirismo delicato che ci incanta e ci sorprende ogni volta che ci troviamo dinanzi alle sue forme essenziali, perché, rimanendo attenti e silenti, vi ritroviamo l’impronta della figurazione e ne intuiamo il colore naturale.
Cabai è uno scrupoloso indagatore della natura e dell’animo umano e sa che, alla base di un buon quadro, c’è sempre il percorso di una vita, nutrita di istanti bui e di attimi felici: di entrambi - lo si vede nelle sue opere - egli ha saputo fare ottimo tesoro.
“je veux, pour composer chastement mes églogues,
coucher auprés du ciel, comme les astrologues
et, voisin des clochers, écouter en révant
leurs hymnes solennels emportés par le vent... “
C. BAUDELAIRE, “Paysage”
(Pavia) maggio 2002 Laura Motta