La Composizione di Sergio Colussa (1942) fa pensare a una sintesi di motivi delle avanguardie storiche del Novecento. Su rossi accesi come d'incendio o di tramonto si campiscono matrici antiche vibranti, matericamente dense, umorose. Corvi neri arrivano dall'espressionismo tedesco di Otto Dix, Emil Nolde, Alexej Jawlenskj, Erich Heckel, Max Pechstein, August Macke, gufi azzurri sembrano portare messaggi di Wassily Kandinsiky, una vegetazione furiosamente incandscente fa rivivere i fauves; e ci sono intarsi del costruttivismo e del suoprematismo russi. Assemblaggi tra memoria e ironia, fantasie citazioniste e surreali dovizie barocche, impulsi nei quali il colore si fa medium di straordinari coaguli d’emozioni. Nelle opere più recenti la pittura intreccia rapsodici giochi danzanti di quadrati erosi come da calcificazioni e da macchie sanguigne, lievitanti d’impulsi nei quali il colore si fa medium di straordinari coaguli di sensazioni. Poligoni vengono spostati e fatti ruotare su se stessi come se fossero mossi da un vento misterioso, tra nubi temporalesche e magmatiche eruzioni. Trasparenti forme celesti lapislazzulo mareggiano proiettando sul fondo chiaro le proprie ombre di un blu profondo. Tarsie policrome si scompaginano come un gran pavese araldico sommosso dalla brezza. Razionale e fantasiosamente eclettico, Colussa è artista che anima la raffinata sapienza tecnica con effetti di travolgente pathos, veleggiando nei territori dell’arte con accorta sapienza. Colto e visionario si dilata in un respiro cosmico.
Licio Damiani, 2018
SERGIO COLUSSA
La pittura come visibile necessità interiore.
L’itinerario umano e artistico di Sergio Colussa, nel suo sviluppo evolutivo, si impasta fortissimamente di motivi che la sensibilità di uomo colto e raffinato coglie dai richiami e suggerimenti recepiti nella realtà dei musei e negli eventi espositivi, che hanno una marcata incidenza nella sua elaborazione culturale. I punti di riferimento diventano col tempo impronte su cui l’artista innesta il peso della sua via personale alla poesia del segno e del colore. Dall’espressionismo tedesco con un’attenzione specifica alla pittura di Franz Marc e di Wassily Kandinskij fino alla consonanza con alcune istanze costruttiviste di Vladimir Tatlin e d El Lissisky corre tutta una serie di seduzioni e suggerimenti che entrano nel reticolo fondante della poetica di Sergio Colussa; l’artista arriva poi in assoluta autonomia all’acquisizione di moduli creativi che attingono ed esaltano i valori significati del colore e quelli formali di una geometria intesa come primaria componente della logica del mondo e, quindi, inesauribile fonte di immagini nell’arte visiva. Già nei tempi giovanili assume dalla pratica en plein air la consuetudine a catturare la luce nelle più diverse condizioni e con i più differenti effetti, ma più tardi – per sua stessa ammissione – sono i manoscritti inediti del pittore svizzero Johannes Itten, esponente del Bauhaus, ad aprirgli orizzonti lungo i quali si incammina subito per una ricerca personale attiva ancor oggi.
Fino agli anni ’80 l’immagine delinea una sua riconoscibile forma (per esempio le “Nature morte in posa”, certi paesaggi e alcuni “interni”), gli elementi figurali mai sono oggetti puri, ma simulacri che richiamano a una netta visione interiore. E qui le ragioni dello spazio diventano moduli ritmici con cui cadenzare la superficie e creare la sottile pellicola cromatica capace di indurre lo sguardo in una metaforica avventura della mente oltre il limite del piano. Nei paesaggi cova il presagio di contorni che si sfaldano svaporando in un indistinto che va a costituire una delle costanti della poetica, tutta rivolta a cercare il movimento nel rapporto tra la luce e le cose, nel mistero delle loro combinazioni reciproche.
Il silenzio di oltre vent’anni (in termini di uscite, confronti e rassegne personali) è la straordinaria cassa di risonanza che consente a Colussa di “auscultare” i battiti di un tempo interiore sospinto a verticalizzare lo sguardo oltre che nello scavo di sé, nella spinta “gotica” a spiritualizzare la pittura in un contesto che considera l’infinità del cielo l’alveo di scorrimento di una libertà espressiva con la sua norma generatrice nella geometria.
L’esito più recente della ricerca impegna Sergio Colussa ormai da qualche anno in una parcellizzazione dello spazio, dove le scansioni geometriche accentuano l’idea del ritmo, già insito nelle formulazioni cromatiche di ogni porzione (nella maggior parte dei casi, quadrata). L’artista fin dagli esordi ha avuto uno sguardo orizzontale, rivolto cioè alla realtà circostante considerata nella sua essenza; adesso il suo occhio “trafigge” il cielo in una tensione verticale. Il suo peraltro non è il risultato di una visione dell’esistente, ma un’azione “visionaria” che penetra le profondità cosmiche, in cui va a prelevare epifanie di luce, correnti di energia, vapori di materia pulviscolare in movimento e li traduce sulla superficie pittorica, percorsa da una luminosità diffusa anche là dove il colore mantiene tonalità scure. Sergio Colussa ci apre finestre verso un infinito, nel quale sembra cogliere, di volta in volta, una sempre diversa determinazione costitutiva del vuoto, che si riempie di situazioni formali preliminari a uno sviluppo metamorfico: disseminazioni puntiformi, sciabolate di materia pittorica, concrezioni di sfumature digradanti o crescenti, minime vibrazioni di segni “sotto pelle” sono evidenze di un impianto cromatico quanto mai ricco di soluzioni e complesso nella sua strutturazione interna. Sbuffi di vaporosità in espansione, percorsi da scie luminose che paiono correre dietro a vetrate d’alabastro, il gusto di una materia pittorica fluida e trasparente, elaborata con varietà di gradazioni entro riquadri che si aprono sulla superficie, qualche volta tessere di un mosaico che compongono un ipotetico universo, ridotto dall’artista a brani quadrati per esorcizzare quasi la vertigine dell’infinito. La sontuosità delle tessiture cromatiche possono rimandare a una serie di elementi atmosferici (le nubi, il cielo, effetti di condensazioni atmosferiche in quota, vapori sprigionati da una combustione oppure da un’eruzione vulcanica), in ogni caso sono dinamiche di energia che partono dal soggetto creante e a quello ritornano dopo un movimento circolare che l’autore assume in se stesso le ragioni fondanti di un’avventura poetica. L’arte di Sergio Colussa è essenzialmente un mondo nel quale esprime la cifra di una personalità marcata nella registrazione dell’esistente (esterno e interno, realtà fisica e dato psicologico) dentro un contesto segnato dalla sostanza dell’anima e dal ritmo di una musicalità che assegna ai dati della pittura la qualifica di “presenza”, un complesso di sollecitazioni pulsanti, di percezioni visive con la capacità di trasfondersi “sinesteticamente” nelle sfere sensoriali uditive e olfattive.
L’artista friulano, per dirla alla maniera di Proust, interpreta il suo rapporto con la pittura come la necessità di una “iscrizione interiore”, proiettata fuori dal suo perimetro profondo e segreto a illuminare la temperatura del proprio rapporto col mondo.
Nella più recente fase del suo lavoro, in contiguità con il concetto spaziale dei “teatrini” di Fontana, Colussa disloca sagome antropomorfe sul bordo inferiore della cornice, di cui esse appaiono quasi escrescenze lignee, come elementi di allusività figurale che dialetticamente si confrontano con la spazialità dell’opera. Il bordo non “chiude” il dipinto, anzi fa parte integrante dell’evento pittorico, che presenta forme addossate in un movimento intenso della geometria costitutiva.
L’operazione creativa vive anche su sequenze di aggiunte e sottrazioni dentro un impianto stratificato a collage, dove i brani di carta, rigorosamente quadrati, sono non ritagli generici e casuali, ma fotografie scattate dall’artista al Beaubourg di Parigi; è un modo per protendere l’hic et nunc, il “qui e ora” della visione oltre la contingenza e cristallizzarla sulla superficie, dove le immagini vengono sbiancate e ricoperte da una tela a trama diradata. Così l’artista crea una suggestione di distanza e allontanamento, senza che vi sia il momento del distacco e della cancellazione.
L’opera si caratterizza per un affinamento della sintesi: da una rottura degli schemi geometrici va al riempimento del quadrato con materia minima; invece di far ruotare le forme, le blocca in una fissità apparente, entro cui si muovono e fluttuano.
Negli ultimi quadri – in cui è chiara la suggestione per il neocostruttivismo russo - la tela sovrapposta e distesa sull’immagine dà un’idea di appannamento e di distanza, come un diaframma tra il passato e l’attualità. La modalità operativa di Sergio Colussa ben si sintonizza con la simultanea operazione di scavo psicologico, di sprofondamento nell’anima: lavora anche sul decollage e ottiene esiti di cromie ricche e pastose anche quando riduce la stesura a finissima pellicola, andando a togliere materia, perché lieviti visivamente l’idea della leggerezza spirituale. E in questo la sua arte appare in linea col fondamento che Kandinskij chiama della “necessità interiore”.
Enzo Santese
Colussa il pitagorico
di Arch. Ph. D. Gian Camillo Custoza
Alcuni giorni fa, osservando le opere più recenti di Sergio Colussa, mi è venuto in mente il Laudibus Sanctae Crucis, Ms.223 F. foll.10 della Bibliothèque Municipale di Amiens, un testo di Rabano Mauro risalente al IX secolo d.c., un opera nella quale i quattro elementi, le quattro stagioni, le quattro regioni del mondo, i quattro quarti del mondo…si dispongono in forma di croce e si santificano in essa.
Nelle pagine che seguono cercherò di spiegare il perché di questo rimando.
Nel pensiero greco Dio ama il limite, l’infinito è per i greci, , come osserva Paolo Zellinni, assoluto male metafisico, non a caso, la cella del tempio greco, il lo spazio più sacro dell’architettura occidentale classica, è limitato, lo stesso etimo di tempio, deriva da verbo greco che si traduce con delimitare, separare.
Il mondo classico è fortemente caratterizzato dal concetto di limite, per i greci tale nozione ha dimensione positiva; la città greca è limitata, circoscritta da mura, quella platonica è estesa quanto basta affinché l’oratore, posto al centro dell’, possa essere udito in ogni luogo della . L’è il centro della; di qui, come espressione dell’ordine cosmico, il centro della città occidentale, sarà, secondo traditio, accostato al concetto di axis mundi; non a caso, su questo, sorgeranno gli edifici sacri più importanti.
Aritmetica, geometria, centro della città, spazio sacro, mantengono dunque, tradizionalmente, un rapporto interattivo, direi genetico, fondante la storia della città stessa; questo nell’ambito della storia dell’urbanistica occidentale, e non solo. In relazione a ciò, appare utile sottolineare che, ab origine, dagli albori dell’epoca classica, la bellezza si è identificata nella proporzione.
È manifesta, nel pensiero classico, la rappresentazione del mondo come un tutto ordinato, proporzionato, una relazione questa certamente informata dalla geometria. I greci pensano all’orbe terracqueo come ad una Forma, avvertendo in ciò, distintamente, l’identità archetipa tra quest’ultima e la bellezza. Omero dedica parte del XVIII canto dell’Iliade,1 alla descrizione dello scudo forte e pesante di Achille, un della letteratura occidentale, una forma compiuta, conchiusa, finita, che immediatamente rivela il proprio specifico valore simbolico, ed ancora, in particolare, svela, le peculiari caratteristiche semantiche. Lo scudo di Achille è un’opera d’arte figurativa che, come qualsiasi altro testo, poetico, narrativo, ha una funzione referenziale; fatto salvo il valore semantico, lo scudo è una messa in forma che non incoraggia a vedere altro da ciò che rappresenta; ha una funzione narrativa, ci racconta ad esempio del territorio cittadino e campestre, lo fa parlando di questo mondo e non di altro; non narra quel che c’è oltre la cerchia del fiume Oceano.
Come ha scritto Umberto Eco, lo scudo di Achille è epifania della forma,2 manifestazione del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche, nelle quali viene istituito un ordine, una gerarchia, un rapporto; una relazione, questa, che è figura-sfondo tra le cose rappresentate. Ammettendo che lo scudo abbia una struttura realisticamente riproducibile, la natura circolare, perfetta, di questo, non lascia supporre che altro esista al di fuori dei suoi bordi; è una forma finita; tutto quello che Efesto voleva dire è dentro lo scudo; questo non ha esterno, è un mondo conchiuso, caratterizzato da quel concetto di limite che per i greci è dimensione positiva.
Se il limite governa il darsi dello spazio più sacro dell’architettura occidentale classica, la cella del tempio greco, le relazioni che regolano le dimensioni di questa architettura, ad esempio gli intervalli tra le colonne, o i rapporti tra i vari componenti architettonici della facciata, corrispondono ai rapporti che regolano gli intervalli musicali.
L’idea di passare dal concetto aritmetico di numero a quello geometrico-spaziale proprio dei rapporti tra punti è pitagorica. È infatti Pitagora, nel VI secolo a.c., il primo ad operare una sintesi virtuosa tra cosmologia, geometria, matematica, scienze umane ed estetica.
Principio di tutte le cose è il numero. In particolare il binomio numero-musica informa e sottende l’identificazione pitagorica della bellezza con la proporzione. Una relazione questa che restituisce la memoria delle origini del pensiero greco, ed ancora, parallelamente, evoca il richiamo al mito classico di Orfeo. La mitica figura del figlio di Calliope, geneticamente rimanda all’identificazione del bello con il proporzionato. Orfeo è l’archetipo dell’artista, colui che dell’arte incarna i valori eterni, ad egli appartiene il potere di placare con i mezzi dell’arte gli elementi e le forze brute della natura. Orfeo è il primo autore dell’idea urbana, il primo costruttore di città e castelli; il potere divino e sacrale dell’armonia musicale, che gli è proprio, rende possibile che pietra su pietra, si edifichi la città, la prima della storia, un’urbe in cui un’umanità, in precedenza ferina, si abitua a vivere in comunità. Orfeo edifica in questa città un oraculum, che è dunque la prima architettura pubblica dell’umanità, gli impone il nome, Neptunia Menia, la città dalle nettunie mura, un urbe in cui il principio urbano è associato ad un elemento marittimo, tale città è dunque ab immemorabili fondamento della civiltà e della storia. Quelle erette da Orfeo sono le mura della città centro, più di ogni altra, del più remoto immaginario poetico dell’Occidente, luogo di origine per principi e popoli, per città e stati, le mura della omerica città di Troia.
Dal figlio della musa Calliope provengono direttamente o indirettamente, non solo gran parte della materia dei miti moderni o contemporanei, ma anche molti dei codici consolidati di lettura dello spazio urbano e della sua configurazione; ancora una volta, credo possa essere il richiamo a questo mito, il discrimine fondamentale per approcciare virtuosamente l’arte di Sergio Colussa.
Nell’opera più recente del maestro friulano non solo colgo una ri-lettura del pensiero che sottende l’Architettura, ma rilevo il rimando all’identificazione pitagorica della bellezza con la proporzione, un’azione questa invero impossibile a colui il quale non goda della grazia di Orfeo e dunque sia sprovvisto del potere divino e sacrale dell’armonia musicale. Lo stesso titolo di questa mostra, è pitagorico, questo nasce appunto dalla discussione generata dalla sollecitazione di cui dicevo nell’incipit di questo testo, il riferimento al Laudibus Sanctae Crucis, di Rabano Mauro. Principio di tutte le cose è il numero, la è per i pitagorici la figura archetipa, il simbolo nel quale si condensa, in misura perfetta ed esemplare, la riduzione della dimensione numerica a quella spaziale, il mutamento della successione aritmetica dei primi quattro numeri interi positivi, in una forma armonica che si da come epifania intrisa di valori semantici. La è nel pensiero di Pitagora il della trasformazione del concetto aritmetico di numero in quello geometrico-spaziale proprio di un triangolo equilatero di lato quattro, una figura geometrica questa, tale da costruire una piramide che sintetizza il rapporto fondamentale fra le prime quattro cifre e la decade 1+2+3+4=10. Ogni lato di tale triangolo è formato da quattro punti, al centro di questa figura è un solo punto, quello dell’unità, dalla quale si generano tutti gli altri numeri. Il quattro è sinonimo di forza, di giustizia, di verità e di solidità, il triangolo formato da tre serie di quattro numeri è simbolo di uguaglianza perfetta. I punti formanti il triangolo, sommati tra loro, danno come risultato il numero dieci, dove questo numero è il numero attraverso il quale si possono esprimere tutti i numeri possibili. Qui il numero dieci rimanda all’unità, poiché 10=1+0=1. Nella decade sono contenuti ugualmente, il pari (quattro numeri pari: 2, 4, 6, 8), e il dispari (quattro numeri dispari: 3, 5, 7, 9); nella risultano altresì uguali i numeri primi e non composti (2, 3, 5, 7), analogamente ai i numeri secondi e composti (4, 6, 8, 9). Ancora, la i multipli ed i sottomultipli, questa figura ha infatti tre sottomultipli fino al numero cinque (2, 3, 5) e tre multipli di questi, da sei a dieci (6, 8, 9). Il numero dieci contiene tutti i rapporti numerici, quello dell’uguale, del meno e del più, e tutti i tipi di numero: i numeri lineari, i quadrati, i cubi; l’uno corrisponde al punto, il due alla linea, il tre al triangolo, il quattro alla piramide. Se il numero è l’essenza dell’universo, nella decade pitagorica si condensano tutta la saggezza universale tutti i numeri e tutte le operazioni numeriche possibili. Proseguendo nello stabilire i numeri sul modello della allargando cioè la base del triangolo, è sempre possibile ottenere progressioni numeriche nelle quali si alternano i numeri pari, simbolo dell’infinito, poiché in essi è possibile identificare un punto che divide la linea di punti in due parti uguali, ai numeri dispari, finiti, perché in essi la linea ha sempre un punto centrale che separa un numero eguale di punti. Queste armonie aritmetiche corrispondono ad armonie geometriche, permettendo all’occhio di collegare continuamente i punti in una serie, diremo indefinita, concatenata, e soprattutto proporzionata di triangoli equilateri perfetti.
Come lo scudo di Achille, i dipinti di Colussa sono dunque epifania della forma, manifestazione del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche, sono opere nelle quali l’artista friulano istituisce un ordine, una gerarchia, un rapporto.
Iscrivendosi a pieno titolo nella traditio dei pitagorici, Colussa avverte per così dire una sorta di sacro terrore, di fronte all’infinito, questo artista scientemente diserta tutto ciò che non può essere ricondotto al limite; egli cerca nel numero la regola capace di limitare la realtà, di ordinarla, di spiegarla.
Siamo a pieno titolo, senza soluzione di continuità, entro una visione estetico matematica dell’universo, una prospettiva secondo la quale le cose esistono in quanto riflesso di un ordine, essendo ordinate, appunto, le cose, perché in esse si realizzano leggi matematiche archetipe, che sono insieme conditio di esistenza e di bellezza. Colussa frequenta i rapporti matematici, gli stessi che regolano i suoni musicali, padroneggia le proporzioni su cui si basano gli intervalli, si pensi ad esempio al tema tutto pitagorico del rapporto tra lunghezza di una corda ed altezza di un suono. Qui l’idea dell’armonia musicale si lega intrinsecamente ad ogni regola per la produzione del bello. È un’idea di proporzione pitagorica che dall’antichità giunge, a cavallo tra il IV ed il V secolo d.c., attraverso Boezio, e poi ancora, successivamente, tramite, ad esempio, Rabano Mauro, Leonardo, Luca Pacioli, Piero della Francesca, Frà Giocondo, Cesariano, Daniele Barbaro, protagonisti della ri-scoperta di Vitruvio, e poi ancora Durer e Michelangelo, diacronicamente, sino alla nostra disperata contemporaneità. Un’epoca questa dis-graziata nel senso etimologico del lemma, un tempo però, nel quale, vi sono ancora artisti come Sergio Colussa, capaci di ricordare che, come informa Esiodo, fu proprio durante le nozze tebane di Cadmo con Armonia, che le muse, in onore degli sposi, cantarono il celebrato ritornello: chi è bello è caro, chi non è bello non è caro.
1 E fece per primo uno scudo grande e pesante, ornandolo dappertutto; un orlo vi fece, lucido, triplo, scintillante, e. una tracolla d’argento; molti ornamenti coi suoi sapienti pensieri. Erano cinque le zone dello scudo, e in esso fece molti ornamenti coi suoi sapienti pensieri. Vi fece la terra, il cielo e il mare, l’infaticabile sole e la luna piena, e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, le Pleiadi, l’Iadi, e la forza d’Orione e l’Orsa, che chiamano col nome di Carro: ella gira sopra se stessa e guarda Orione, e sola non ha parte dei lavacri d’Oceano. Vi fece poi due città di mortali, belle. In una erano nozze e banchetti; spose dai talami, sotto torce fiammanti guidavano per la città, s’alzava molto <<Imeneo!>>, giovani danzatori giravano, e fra di loro flauti e cetre davano suono; le donne dritte ammiravano, sulla sua porta ciascuna. E v’era del popolo nella piazza raccolto: e qui una lite sorgeva: due uomini leticavano per il compenso d’uno morto; uno gridava d’aver tutto dato, dichiarandolo in pubblico, l’altro negava d’aver niente avuto: entrambi ricorrevano al giudice, per aver la sentenza, il popolo acclamava ad entrambi, di qua e di là difendendoli; gli araldi trattenevano il popolo; i vecchi sedevano su pietre lisce in sacro cerchio, avevano tra mano i bastoni degli araldi voce sonore, con questi si alzavano e sentenziavano ognuno a sua volta; nel mezzo erano posti due talenti d’oro, da dare a chi di loro dicesse più dritta giustizia. L’altra città, circondavano intorno due campi d’armati, brillando nell’armi; doppio parere piaceva fra loro, o tutto quanto distruggere o dividere in due la ricchezza che l’amabile città racchiudeva; quelli però non piegavano;s’armavano per un agguato. Il muro, le spose care e i piccoli figli difendevano impavidi, e gli uomini che vecchiaia spossava; gli altri andavano, Ares li conduceva e Pallade Atena, entrambi d’oro, vesti d’oro vestivano, belli e grandi con l’armi, come dèi visibili d’ogni parte; gli uomini eran più piccoli. E quando arrivavano dov’era deciso l’agguato, nel fiume dov’era l’abbeverata di tutte le mandrie, qui appunto si accovacciarono, chiusi nel bronzo lucente; e v’erano un po’ lontano due spie dell’esercito, spianti quando le greggi vedessero e i bovi lunati. Ed ecco vennero avanti, due pastori seguivano, e si dilettavan dal flauto, non sospettavano agguato. Essi, vedendoli, corsero e presto tagliarono fuori le mandrie dei bovi, le greggi belle di candide pecore, e uccisero i pastori. Ma gli altri, come udirono molto urlio in mezzo ai bovi mentre sedevano nell’adunanza, subito sopra i cavalli scalpitanti balzarono, li inseguirono e li raggiunsero; e si fermarono e combatterono lungo le rive del fiume;gli uni colpivano gli altri con l’aste di bronzo, Lotta e Tumulto era fra loro e la Chera di morte, che afferrava ora un vivo ferito, ora un illeso o un morto tirava pei piedi in mezzo alla mischia. Veste vestiva sopra le spalle, rossa di sangue umano. E come fossero uomini vivi si mescolavano e lottavano e trascinavano i morti nella strage reciproca. Vi pose anche un novale molle, e un campo grasso, largo, da tre arature; e qui molti aratori voltando i bovi aggiogati di qua e di là, li spingevano: e quando giungevano alla fine del campo, a girare, allora una coppa di vino dolcissimo in mano poneva loro un uomo,appressandosi; e solco per solco giravano,bramosi di arrivare alla fine del maggese profondo. Dietro nereggiava la terra, pareva arata, pur essendo d’oro; ed era gran meraviglia. Vi pose ancora un terreno regale; qui mietitori mietevano, falci taglienti avevano tra mano; i mannelli, alcuni sul solco cadevano, fitti, per terra, altri i legatori stringevano con legami di paglia; v’erano tre legatori, in piedi; ma dietro fanciulli, spigolando, portando le spighe a bracciate, le davano continuamente. Il Re fra costoro, in silenzio, tenendo lo scettro, stava sul solco, godendo in cuore. Gli araldi in disparte sotto una quercia preparavano il pasto, e ucciso un gran bue, lo imbandivano; le donne versavano, pranzo dei mietitori, molta bianca farina. Vi pose anche una vigna, stracarica di grappoli, bella d’oro; i grappoli neri pendevano: era impalata da cima a fondo di pali d’argento; e intorno condusse un fossato di smalto e una siepe di stagno; un solo sentiero vi conduceva, per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna; fanciulle e giovani, sereni pensieri nel cuore, in canestri intrecciati portavano il dolce frutto e in mezzo a loro un ragazzo con una cetra sonora graziosamente sonava e cantava un bel canto con la voce sottile, quelli battendo a tempo, danzando, gridando e saltellando seguivano. E vi fece una mandria di vacche corna diritte; le vacche erano d’oro e di stagno, muggendo dalla stalla movevano al pascolo lungo il fiume sonante e i canneti flessibili; pastori d’oro andavano con le vacche, quattro, e nove cani piedi rapidi li seguivano. Ma fra le prime vacche due spaventosi leoni tenevano un toro muggente; e quello alto mugghiando veniva tirato; lo ricercavano i giovani e i cani, ma i leoni, stracciata già del gran toro la pelle, tracannavan le viscere e il sangue nero; i pastori li inseguivano invano, aizzando i cani veloci: questi si ritraevano dal mordere i leoni, ma stando molto vicino, abbaiavano e li evitavano. E un pascolo vi fece lo Storpio glorioso, in bella valle, grande, di pecore candide, e stalle e chiusi e capanne col tetto. E una danza vi ageminò lo Storpio glorioso; simile a quella che in Cnosso vasta un tempo Dedalo fece ad Ariadne riccioli belli. Qui giovani e giovanette che valgono molti buoi, danzavano, tenendosi le mani pel polso: queste avevano veli sottili, e quelli tuniche ben tessute vestivano, brillanti d’olio soave; ed esse avevano belle corone, questi avevano spade d’oro, appese a cinture d’argento; e talvolta correvano con i piedi sapienti, agevolmente, come la ruota ben fatta tra mano prova il vasaio, sedendo, per vedere se corre; altre volte correvano in file, gli uni verso gli altri. E v’era molta folla intorno alla danza graziosa, rapita; due acrobati intanto dando inizio alla festa roteavano in mezzo. Infine vi fece la gran possanza del fiume Oceano,l’ungo l’ultimo giro del solido scudo. Omero, Iliade, XVIIII, 478- 607.
2 Umberto Eco, vertigine della lista, p. 12 Bompiani 2009,