Silvia Canton. De rerum natura
di Alessandra Redaelli
Negli anni Sessanta del Novecento, l’inserimento nell’arte dei materiali della natura è un momento di passaggio fisiologico. La rivoluzione delle avanguardie ha portato come effetto secondario la pulizia da tutte le sovrastrutture e il ritorno alle origini appare come l’esito prevedibile e inevitabile del percorso. Se la cultura anglosassone esplicita questa esigenza attraverso la Land Art (pensiamo alle passeggiate solitarie di Richard Long, che lasciano sentieri di erba schiacciata, o alle costruzioni poetiche di Robert Smithson come la Spiral Jetty sul Grande Lago Salato) in Italia si afferma il movimento dell’Arte Povera. Con Mario Merz che affastella rami nella costruzione dei suoi igloo, riportando l’uomo troppo addomesticato alle regole della natura (con la sua ossessione per la sequenza di Fibonacci), e con Giuseppe Penone, l’uomo che sussurra agli alberi. Penone, con i suoi interventi delicati in cui un calco della sua mano si aggrappa a un giovane tronco per imprimervi il suo segno e rimanervi fuso per tutta la lunga vita dell’albero (che vi crescerà intorno in un abbraccio). Oppure con i suoi sistematici lavori di scavo intorno all’albero adulto fino a rivelarne l’essenza, la pianta giovane che ancora vi dorme dentro, in un disvelamento che non ci parla della natura come altro da noi, ma che finisce per avvicinarcela, per apparentarci a lei.
Oggi per alcuni artisti parlare di natura è un’esigenza che va molto al di là dell’operazione nostalgica o di ritorno alle origini, e che non può prescindere da una presa di posizione forte rispetto a un problema di salvaguardia del pianeta più urgente che mai. C’è Olafur Eliasson, che nel 2015 trasporta blocchi di ghiaccio nel centro di Parigi in occasione della XXI conferenza sul cambiamento climatico, per mettere sotto gli occhi di tutti la velocità con cui il ghiaccio si scioglie, costantemente, senza tregua, anche dove dovrebbe essere eterno. E poi ci sono artisti come Wolfgang Laib o Ernesto Neto, che come chef sopraffini ci deliziano con i profumi e i colori della natura – dal latte al polline, alle spezie – attraverso installazioni immersive che agiscono sui nostri neuroni come la madeleine di Marcel Proust, riportandoci a un tempo primordiale del quale avevamo perso le tracce.
Silvia Canton fa tesoro della lezione di chi è venuto prima di lei e la rielabora nel suo linguaggio personalissimo, inserendo di fatto la natura – nello specifico un pezzo di sughero vergine – nella pittura e dandole di volta in volta il compito di interpretare se stessa oppure di farsi metafora di un mondo che sta mutando, o addirittura di farsi simbolo di un’umanità che ha voglia di tornare a sentirsi natura lei stessa. Il sughero l’ha chiamata un paio di anni fa. L’ha sedotta con la sua consistenza ruvida e irregolare, con la sua unicità e imprevedibilità. E lei ha voluto farlo suo perché conquistata dal suo carattere indomabile, dal fatto che inevitabilmente, decidendo di appropriarsene e di renderlo parte della pittura, lei avrebbe dovuto arretrare di qualche passo, cedergli uno spazio di manovra che avrebbe portato il lavoro su strade che lei stessa non era in grado di immaginare. Lo sceglie (e confida che in quel momento avviene una sorta di innamoramento) e poi lo taglia, certo. Lo modifica. Qualche volta lo dipinge, perché entri a confondersi nella materia pittorica, altre volte lo spennella di resina per conservare il più possibile dei residui vegetali (i residui di vita) che lo ricoprono. In certi casi decide di trattarlo con la polvere di ferro e di ossidarlo, per svelare un’identità ibrida, metallica, rugginosa, spiazzante. Ma la sua anima selvaggia e autentica resta intatta e leggibile. E poi ci sono le volte in cui il pezzo è così perfetto, così magnificamente già compiuto in se stesso, che l’artista decide di dare al sughero la priorità, di semplificare la narrazione pittorica e di fare che sia lei, la natura, a parlare lì con la sua voce più autentica.
(Pensiamo a un’opera come Abissi, sinfonia di bruni trasparenti e colanti che ruotano intorno al frammento di sughero come se fosse stato lui stesso a imprimere il movimento al pennello).
La natura vera che di fatto irrompe in maniera così violenta dentro una narrazione – anche questa – sostanziata di natura, non si limita a darci un resoconto, una suggestione. Silvia Canton non dipinge dei paesaggi con pezzi di paesaggio, l’operazione che compie è molto più complessa. Questo è un punto fondamentale. La fusione dell’artificiale – la pittura – con il reale – il sughero – non punta mai alla mimesi: qui piuttosto l’artificio si fa permeabile al vero, vi si abbandona, lasciandosi compenetrare da quel pezzo di realtà fino a identificarvisi. Quello dell’artista, dunque, non è mai semplicemente un racconto naturale, ma si rivela un percorso di consapevolezza all’interno di quella natura di cui ci parla, un’analisi che punta a recuperarne la storia fino alla sua elementarità primordiale e fino al dettaglio delle sue infinite e inesauribili metamorfosi. La sua evoluzione dal caos all’ordine. L’evoluzione del nostro pianeta e del nostro stesso essere. Quando si osserva un’opera come Crisalide, ad esempio, non si può fare a meno di vedere in quel nucleo d’oro che sta esplodendo un momento della creazione dell’Universo. E tuttavia lì, in quel solco dormiente nella terra bruna, c’è anche l’umile vita del seme, il suo cammino segreto per diventare pianta. Il macro e il micro, la storia millenaria e il segmento temporaneo di un secondo. L’introduzione dell’oggetto – quindi, di fatto, il passaggio dalla pittura alla tecnica mista – è per Silvia Canton il mezzo per dare ulteriore spazio alla sua sete di spessore e di realtà. E la natura tridimensionale e materica delle opere non è soltanto un modo per saldarci al concreto, ma anche il pretesto per far scattare una sofisticata trappola per lo sguardo, che invade il nostro spazio, ci prende per mano e ci porta dentro, al centro del tutto.
Non è una pittura facile da classificare, quella di Silvia Canton. La vocazione gestuale che spinge spesso l’opera verso l’astratto va costantemente a scontrarsi con un bisogno di figurazione che appare ineludibile. C’è sempre, sottopelle, un conflitto, una frizione. Tra la materia pittorica selvaggia e le suggestioni nobili che rimandano alla grande storia dell’arte.
Tra istinto e controllo. Tra sentimento e ragione. Anche prima di questa nuova serie, così fortemente radicata intorno alla presenza del sughero, sulle sue tele sembravano trovare un’impensabile armonia le fioriture Liberty, sciolte in curve sinuose, e la pennellata potente dell’espressionismo astratto. Il colore esplodeva, la materia dilagava sulla tela seguendo le setole del pennello per poi sciogliersi e colare in rivoli acquatici, quasi pacificarsi in quello sgocciolamento. E dopo, quando lo sguardo riusciva a lasciare la direzione delle pennellate e si permetteva di esplorare lo spazio pittorico nei dettagli, l’occhio scopriva piccole montagne sulle quali si intravedevano fragili arbusti, oppure incontrava un’infiorescenza, o ancora, nel vorticare dei blu e dei bruni (i colori del cielo, del mare e della terra) scopriva l’improvviso accendersi di una fiamma rossa, quasi una visione che di colpo catalizzava l’attenzione e diventava il centro stesso dell’opera.
E oggi, in queste opere costruite intorno al sughero, è come se ogni volta Silvia Canton scegliesse un punto di equilibrio diverso. Un centro focale (l’astrazione, la narrazione, la suggestione, la citazione) che ci offre come punto di partenza per una lettura che è sempre un dipanarsi lento, una serie di consapevolezze e rivelazioni successive che non arriveranno mai – e così deve essere – a un completo possesso del lavoro, lasciando sempre alla fine quel dubbio che ci incanta. Prendiamo Il grande pesce, un’opera emblematica che da sola potrebbe
spiegare l’intera poetica dell’artista. E’ un dipinto di grandi dimensioni: una marea montante di oro e di terre che sembra voler avvolgere lo spettatore in un abbraccio al tempo stesso seducente e terrificante. Il titolo è apparentemente semplice e calzante sull’iconografia, ma la vicenda che si svolge lì, su quel rettangolo denso di sostanza e di colore, è immensa. Il frammento di sughero vergine che dà il titolo all’opera appare come una ferita bruna al centro del lavoro, una ferita aperta, una piaga suturata di fretta dopo essere stata disinfettata con materiali di fortuna. Intorno, la materia è ruvida, scabra, incisa da graffi che all’improvviso si rivelano forse elementi vegetali, ma di una vegetazione ostile, aggressiva: un intrico di rovi. O magari, piuttosto, si tratta dei tentacoli di una bestia marina. Se il titolo vuole spingerci, in effetti, a pensare al mare, le tonalità su cui si gioca la tavolozza sembrano contraddire questo indizio e portarci verso un sottobosco brullo, autunnale, dove la vita è sopita e dove ne restano solo poche tracce. Perché la natura tutta, dalla terra al cielo al mare, è un unico elemento dominato da una sola anima e da un immenso respiro, e questo Silvia Canton lo sa bene. E’ un’opera forte, Il grande pesce: dura, difficile e bellissima. Bella di quella sua semplicità primitiva che sembra parlarci di un caos primordiale non ancora ordinato e che vanta ascendenze importanti. Una su tutte quella di Alberto Burri. C’è la tela grezza di Burri in quelle terre luminose e cangianti, e ancora è Burri a sussurrare nel sughero che catalizza lo sguardo, bruno e coriaceo come i suoi cretti. I pesci, tra l’altro, sono un elemento ricorrente, nel lavoro di Silvia Canton, anche per la loro ricca simbologia religiosa. Oltre a Il grande pesce c’è lo spettacolare Mattanza, dove la forma è ricostruita per sezioni e dove la morte di un piccolo animale appare circonfusa di una drammaticità solenne. E poi c’è il pesce d’oro di Amo (titolo squisito, nel gioco di parole racchiuso in quelle sole tre lettere) che ci fa pensare al primo pesce, al padre di tutti i pesci, mentre quel mare rosso e rugginoso sembra sgorgare da un cuore che batte. E se ai primordi della natura rimandano le opere che alludono al caos originale, ai primordi dell’uomo ci portano lavori come Piccola madre, dove il sughero incrostato di residui vegetali si fa utero, abbraccio, e dove l’andamento circolare dello sfondo, aperto in una voragine nella quale lo spettatore vorrebbe lasciarsi cadere, rivela il pulsare di una luce rossa come un piccolo cuore. La potenza istintiva che l’artista imprime al gesto pittorico, poi, non le impedisce di lanciarci qualche lieve messaggio, di regalarci qualche omaggio più o meno esplicito alla grande arte del passato.Come nelle gioiose cromie di Regina, dove il gesto circolare e la scelta dei rossi, dei turchesi e dei gialli sembrano inscenare una danza dedicata a Sonia Delaunay.
Ma ci sono anche le situazioni in cui la pittura avverte il bisogno di trasformarsi in cronaca, in denuncia. Nel settembre del 2019 l’artista decide di fare un’escursione nei boschi di Croce D’Aune, sulle Dolomiti bellunesi. Chiunque si sia avventurato nelle zone devastate dalla tempesta Vaia – la tempesta che nell’ottobre del 2018 ha colpito l’Italia, abbattendo milioni di alberi – ha perfettamente presente il senso di desolazione e di smarrimento che si prova davanti allo spettacolo di quello che resta. Chi poi ha avuto occasione di rivedere dopo l’uragano luoghi che aveva conosciuto prima, in cui era abituato a camminare, si è reso conto di aver perso tutti i punti di riferimento, ostaggio di un panorama mutato, di scorci prima impensabili e ora stranianti. Si resta sconcertati davanti a quelle montagne di alberi uccisi, straziati, pallidi come cadaveri, impilati uno sull’altro come in un macabro gioco dello shanghai. E tutta la nostra piccolezza ci appare evidente, davanti alla desolazione dei giganti abbattuti. Anche l’artista è rimasta lì a guardare, straziata, imprimendosi nella retina uno spettacolo che avrebbe voluto invece subito dimenticare. Poi è tornata a casa e finalmente ha preso quel pezzo di sughero, proprio quello che conservava da un po’, perché era così bello, così potente! Lo ha preso e, di getto, è nata Vaia, un’opera dinamica, vorticante, dove l’imprimersi della pennellata sulla tela è a tratti vento incalzante e a tratti tronco tagliato del quale si possono leggere gli anni nei cerchi concentrici della sezione, in cui la pittura si alza in onde che sono al tempo stesso folate e rami, e in cui il sughero si pianta come un paladino, una protezione. Una possibile redenzione e un’auspicabile rinascita.
E con premesse simili è nato anche Acqua Granda dedicato a un altro dei luoghi devastati dalla furia di una natura esausta. Una visione di mare e di terra che si scontrano e che lottano in una Venezia che è oramai solo ricordo, simboleggiata dalla sua cattedrale di San Marco che si libra come un vascello fantasma, oramai sradicata, rapita al mondo.
Silvia Canton. Pratiche di resistenza
di Martina Cavallarin
Mobilis in mobile, era questo il motto di Capitan Nemo di Julius Verne. E l’Arte Contemporanea è un organismo in transito nel flusso asistematico dell’esistenza, un sismografo delle questioni del mondo che si occupa delle urgenze della società dalla quale, necessariamente, non si discosta. L’artista, oggi più che mai, è dunque un manipolatore di segni che intercetta e raccoglie, documenta, registra, decodifica, frammenta e ricompone dall’analisi di un paesaggio reale, producendo itinerari nel paesaggio dei segni stessi presenti nell’opera. Spazio di negoziazione, l’arte è il territorio magico nel quale l’artista si fa antropologo visivo in costante stato di allerta. E l’allerta di Silvia Canton si concentra su un tema centrale della contemporaneità in lotta per trovare un punto di raccordo tra le necessità dell’uomo e l’ambiente nel quale abita.
Il Fiore del Deserto rappresenta dunque una pratica di resistenza, dolce ma inesorabile, disegnata con il pennello e alimentata da materiali di recupero. Si tratta di un processo che parte da lontano e mette in dialogo due realtà geografiche che, quasi all’unisono, echeggiano come un grido del pianeta, un’evidenza di una crisi già in atto, tangibilmente presente. Il titolo della mostra prende spunto dalla poesia “La ginestra” - il fiore del deserto appunto - di Giacomo Leopardi. Questa pianta rappresenta la fatica dell’uomo nel superare la sofferenza; nasce in luoghi impervi come ambienti vulcanici e desertici, tuttavia è bella e profumata. Nella sua poesia Leopardi ripropone la questione sulla natura matrigna, ma non rinuncia a un afflato di speranza e positività. E la poetica di Silvia Canton lavora su tale dualismo narrando di catastrofi annunciate e di effetti collaterali prodotti dal fare umano, la natura questa volta è al collasso e siamo noi i prevaricatori, la schisi è in atto, ma la promessa del cambiamento non può e non deve mancare.
Il luogo simbolico che la sua arte veicola e diffonde intende catalizzare anche l’attenzione dei visitatori più distratti giacché l’opera è dispositivo potente e indipendente, massaggiatore infaticabile del muscolo atrofizzato della coscienza collettiva (1.).
La sua pratica artistica, ricca di sedimentazioni e intercessioni linguistiche, analizza nuovi protocolli muovendosi, l’artista, nella duttilità con comprensione e inclusione. La traduzione che mette in moto mediante i materiali impiegati e le cromie a essi connesse, è concetto necessario per progettare in stato di emergenza, per “tradere” - non solo da un linguaggio a un altro linguaggio, bensì trasportare un concetto da un capo all’altro – e durante questo tragitto stabilire tremiti e identificare interstizi. Il lavoro compiuto per le realizzazione delle opere che narrano di Vaia è lungo e faticoso: raccolta del legno divelto, procedimento di “cottura” attraverso un grande forno a microonde, resina che impregna e solidifica, azione di carpenteria, incursione di supporti metallici e infine, la sapienza talentuosa di pennello e cesello. Canton produce, attraverso tale processo, più che semplici dipinti, sculture a parete intense e armoniche, seducenti. La serie di tele verdi che invece raccontano Venezia, è una sequenza dalla tecnica più strettamente pittorica e tradizionale, nella quale l’immersione in una sola tinta di pigmento dominante, potente, comprime l’immagine sottostante che appare come immersa, anzi affogata, nell’acqua. La paralisi prodotta dallo stallo che la visione complessiva della mostra impone, è anche maniera di perpetrare la presenza e sospendere il caos insito nel corso degli eventi che parlano di distruzione, ma soprattutto aprono alla denuncia esplicitando, l’incontro con l’opera, la necessità di assumere, ciascuno di noi, una presa di coscienza responsabile al fine di controvertere l’entropia in atto.
In un’era in cui tutto appare conosciuto e scoperto e segnalato, il lavoro di Silvia Canton agisce all’interno di una corrente di ricerca innervata nell’Arte Contemporanea che va nella direzione del metodo antropologico - scientifico - esplorativo. Corrente che si snoda nella traccia della mappatura, di un nomadismo intellettuale ed esperienziale che si alimenta d’incursioni in territori e regioni con una particolare metodologia d’indagine, e di
riassunto della stessa. Ciò che le interessa, al fine di sottolineare le urgenze che si riferiscono all’ambiente nel quale viviamo, è “la finzione come mezzo per cogliere la realtà” (2.), utilizzando tale finzione come veicolo e il viaggio come una metodica di diagramma. La sua opera ricerca e abita una zona di confine, lavorando su differenze percettive che funzionano come mediani e per scarti minimi.
La filosofia pre-socratica cercava di trovare nella babele del mondo un principio in grado di dimostrare tutte le cose, di fare ordine. L’ambizione di impiegare la forza della ricerca artistica endemicamente sensibile al consesso sociale nel quale opera, risiede nel tentativo di ristabilire la rotta verso un’armonia e un equilibrio che da sempre lega l’uomo al suo contesto, per procedere nel senso del bello e del giusto. E l’indagine di Canton esplora frammenti del tempo e dello spazio, traiettorie che perlustrano differenti geografie, come l’artista etnografo configurato da Hal Foster (3.), ovvero un autore che procede per analisi sulla natura dell’uomo, per tracce e transiti riferiti al suo habitat, da rimarcare o rimodellare in condizione di apertura a tutte le forme di civiltà, al nostro mondo in generale. In questa fase della sua esplorazione che sfocia nell’esposizione
Il Fiore del Deserto presso il Museo Santa Caterina di Treviso, Canton si riferisce a due esempi simbolici particolari, due fenomeni disastrosi quali la tempesta Vaia di ottobre e novembre 2018, e l’Acqua Granda che ha colpito Venezia nel novembre del 2019. Si tratta di mettere in scena una rappresentazione nella quale anche colui che dispone è disposto, immerso in una parallasse, in un modo che sovverte le vecchie opposizioni dello studio del fare umano e cerca un sistema diverso, più armonico e che stabilisce una grammatica condivisa tra naturale e artificiale, innovazione e durata. La pittura è solcata e arricchita da materiali naturali e dalla presenza della corteccia raccolta dopo il disastro montano e popolata dalla riproduzione incontrollabile del bostrico tipografo, una piaga che ha e sta attaccando l’abete rosso. Si tratta di un piccolo e subdolo coleottero che si nutre di legno scavando gallerie nella scorza, interrompendo il flusso della linfa fino a portare la pianta alla morte. Un vero e proprio flagello per i boschi già provati da Vaia e da lunghi periodi di siccità, che ha già causato la morte di milioni di alberi. Quella analizzata e composta nell’opera è dunque l’emblema di una battaglia in atto praticata mediante un percorso che cerca di evidenziare, con il pensiero dolce ma determinato dell’arte, una direzione possibile in un mondo al collasso. L’opera di Silvia Canton, fiore del deserto, sceglie di resistere. E lo fa attraverso l’utopia positiva dell’arte e la sua intenzione di cambiare le cose attraversando il quotidiano, risucchiandone l’inerzia. Il cortocircuito sollevato dalla mostra eleva elementi e dettagli - i reperti di Vaia come i pigmenti delle Venezie - a frammenti di una più vasta costruzione che crea un campo di intensità estremamente intimo, ma assolutamente universale, un perimetro iconico di cambiamento e speranza che non vuole rimuovere né cancellare la realtà ma, attraverso la protesi dell’arte, instaurare una dimensione dialettica aperta a un cammino di coscienza.
1. Cit. Achille Bonito Oliva
2. Jacques Lacan, Les non-dupes errent (1973, 1974).
3. Hal Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia Srl, Milano, 2006